La millenaria persistenza della perniciosa conflittualità in Italia.
di Francesco Caracciolo

Nei primi secoli di Roma antica, i giuli, i coruncani, i porzi erano famiglie che affluivano in città provenienti da città poste a poche miglia. I sabini, gli etruschi, i lucani, i volsci, gli equi erano popoli abitanti in regioni della penisola italica. Quelle famiglie e quei popoli avevano cultura e costumi affini a quelli dei romani e nessuno sconvolgimento poteva produrre la loro immigrazione nella città do Roma o il loro reciproco afflusso. I balbi venuti dalla Spagna e altri nobili venuti dalla Gallia erano famiglie sparute. Gli edui, ai quali un senatoconsulto conferì il diritto di accedere al senato romano, erano un popolo intero della nazione gallica. Non fu allora l’immigrazione di quelle famiglie e l’acquisizione di quei popoli che generò l’insostenibile promiscuità che si verificò nel tempo. Non si poteva allora e non si può oggi indicare l’immigrazione di quelle famiglie e l’acquisizione di quei popoli per avvalorare i vantaggi e gli effetti che produsse l’immigrazione. Al tempo della repubblica e dell’impero di Roma antica a produrre il caos e lo stravolgimento dell’identità non furono l’immigrazione di famiglie italiche e l’acquisizione e in seguito l’invasione di popoli interi (di popoli cioè che dopo la fine dell’impero si riverseranno nella Gallia, nella Britannia, nell’Iberia). Al contrario, a produrre la deleteria promiscuità e la conseguente conflittualità fu l’immigrazione a Roma e in Italia di milioni di singoli individui con costumi, cultura e tradizioni diversi provenienti da ogni parte del mondo. Gli effetti dell’immigrazione di famiglie italiche e dell’acquisizione di popoli interi non possono essere confusi con gli effetti deleteri che produce l’afflusso di milioni di immigrati con estrazione, cultura, costumi e tradizioni più disparati provenienti da ogni angolo del Pianeta. Non potevano essere confusi venti secoli or sono e non possono essere confusi nell’Europa del ventesimo e del ventunesimo secolo, in cui si sta verificando la stessa invasione di allora, in cui cioè milioni di individui, componenti l’arcipelago migratorio, estranei gli uni gli altri e di decine di razze e provenienze diverse, invadono e sconvolgono la società decadente di alcuni paesi europei. Delle conseguenze disastrose di quel progrediente stato di cose non si accorsero i contemporanei né allora, nell’antichità, né dopo. Certo non sfuggiva loro, come non sfuggì a Tacito, che un popolo conservava tanto più il proprio carattere quanto meno era contaminato dalla promiscuità con altre genti. E questo si poté constatare nei secoli che seguirono. Gli innumerevoli immigrati, i loro figli e i loro discendenti ebbero diversi secoli per integrarsi sostanzialmente nel tessuto sociale. Ma essi, come si può arguire dagli avvenimenti futuri, non si sono mai integrati sostanzialmente. Nonostante il loro adattamento e la convenienza ad adeguarsi alle esigenze della convivenza apprendendo la lingua e rispettando le leggi per sopravvivere e per prosperare, non si sono mai intesi profondamente tra loro, né con la popolazione autoctona, e non sembra che abbiano mai acquisito una nuova identità. Sono rimasti sé stessi.

La società romana continuò a sopravvivere multietnica e multiculturale, ma non riassunse mai la dignità di popolo. Restò intimamente estranea al significato della frase «senatus populusque romanus», che era stata sacra per il popolo romano dei secoli della Repubblica. La società romana e italica dei secoli dell’impero andò trasformandosi. Divenne promiscua, servile, senza nerbo, senza ideali e senza identità e non in condizioni di difendersi e di difendere le istituzioni e il governo. Divenne l’ombra di se stessa, la negazione di quel che era stata prima che l’invasione e l’occupazione di innumerevoli immigrati e la conseguente promiscuità producessero sostanziale sconvolgimento, crescente decadenza, smarrimento dell’identità, mancanza di unità e la fine delle istituzioni di una società un tempo gloriosa. Nel quinto secolo dopo Cristo, Roma e l’Italia erano divenute la parodia di quello che erano state quando ancora la promiscuità e lo sconvolgimento non si erano consolidati, quando ancora non erano divenuti tessuto sociale. La società e le sue caotiche istituzioni erano irriconoscibili. In essi erano prevalsi caratteri e modi di vivere e di agire degli innumerevoli immigrati e dei loro discendenti che, nonostante l’integrazione formale, erano rimasti sostanzialmente estranei a una nuova identità e a un nuovo modo di sentirsi parte dell’insieme. Si era formata una società ibrida, senza carattere, senza ideali e senza punti fermi di riferimento; una società che era il risultato del miscuglio di innumerevoli individui di razze, di costumi, di tradizioni, di modi di vivere più diversi e opposti: di connotati che hanno impedito a quei tanti individui di integrarsi sostanzialmente. Quella società era anche il risultato dell’indirizzo politico essenzialmente cosmopolitico che Roma e l’Italia avevano avuto sin dal primo secolo avanti Cristo, dagli ultimi decenni della repubblica, quando già gli immigrati provenienti dalle province d’Europa, d’Africa e d’Asia componevano la maggior parte degli abitanti di Roma. Tanti stranieri, immigrati da poco o da molto tempo, mentre turbavano i rapporti sociali e condizionavano la politica, non avevano alcun attaccamento al prossimo ed erano del tutto indifferenti per la sorte che poteva avere la cosa pubblica. Si comportavano con estrema leggerezza e restavano estranei a qualsiasi novità che potesse giovare al buon funzionamento delle istituzioni e che non tornasse utile ai propri interessi. Il loro comportamento, che accresceva la diffusa corruzione, era mal controllato. Sul loro conto le istituzioni esercitavano una sorveglianza blanda e inefficiente e quando, poi, cercarono di renderla meno distratta, quella loro sorveglianza fu accusata di essere fuorilegge, un attentato alla libertà. In quei decenni del crepuscolo dell’impero il prevalente carattere ormai da tempo radicato nella società romana e italica si accompagnava con la diffusa mancanza di dignità e di onore e con la totale scomparsa di orgoglio e perfino della memoria di quello che l’antico popolo romano, gli antichi cittadini romani e italici erano stati. Con la dignità, con l’orgoglio e con la memoria del passato era scomparsa ormai da molto tempo la capacità di difendersi. Gli avvenimenti di quegli ultimi decenni dell’impero non si possono rievocare senza raccapriccio. Furono sconvolgenti. Un susseguirsi di sconfitte, di saccheggi, di umiliazioni che subirono città indifese e cittadini inermi, codardi ed effeminati. Un succedersi di invasioni, di soprusi, di violenze, perpetrati a volontà da orde di invasori e di occupanti, come i goti e i vandali, ai quali gli evirati, indolenti e discordi abitanti di Roma e d’Italia non opposero alcuna resistenza. Cercarono di scendere a patti con quei barbari, ma furono da essi disprezzati e subirono soprusi, violenze, spoliazioni, deportazioni, senza reagire.

Quegli abitanti di Roma e d’Italia avevano perduto da molto tempo perfino la dimestichezza con le armi. Era impossibile intravedere in loro un minimo segno dell’antico valore e neppure del carattere, della dignità, dell’orgoglio, del senso di appartenenza alla città e allo stato, del sentimento di patria e dell’attaccamento alle gloriose tradizioni e alle istituzioni degli antichi romani. Era impossibile intravedere in quegli abitanti un retaggio del passato. Niente di quel passato poteva allora emergere, perché era tutto scomparso, perfino nella memoria. Da molto tempo, in quel quinto secolo dopo Cristo gli abitanti di Roma e d’Italia non avevano nulla del passato perché non avevano nulla da spartire con il popolo romano che aveva costruito la propria civiltà e aveva affermato la propria superiorità, facendola accettare al resto dell’umanità. Quegli abitanti non erano un popolo e avevano cessato di esserlo da alcuni secoli, molto prima che crollassero le istituzioni e finisse l’impero. Componevano un insieme che era il risultato del miscuglio di innumerevoli individui, provenienti da ogni angolo delle tre parti del mondo conosciuto; il risultato della promiscuità di individui che erano rimasti estranei gli uni gli altri, indifferenti e ostili al pubblico interesse e tutti contro tutti. Vivendo insieme per convenienza o per necessità di sopravvivenza, quegli abitanti avevano da tempo perduto la capacità di organizzarsi e non seppero difendersi neppure per continuare a sopravvivere. Quella confusione etnica e culturale, che si protrasse a Roma e nel paese per alcuni secoli, fu l’inizio della fine dell’impero e del crollo politico e civile di una società e delle sue istituzioni. Formò un nuovo carattere distintivo della popolazione, che fu indelebile nonostante sussulti settoriali di rinascita e di ricomposizione che, qua e là, durarono più o meno ed ebbero protagonisti nuclei di èlite sociale. Formò un carattere che, in futuro, distinse sempre la popolazione italiana da ogni altro popolo europeo, compresi quelli neolatini. La popolazione che si andò trasformando nell’antichità non acquisì mai quella invisibile molla interiore che spinge gli uomini alla collaborazione protesa al conseguimento di un fine comune che non sia solo quello di reagire all’oppressione o di badare solo al proprio particolare tornaconto. La sostanziale incomprensione fu prevalente, si tramandò e impedì che uomini viventi gomito a gomito si intendessero a pieno. Si andò così consolidando il carattere di una popolazione sorda alle esigenze della comunità, all’interesse dell’insieme composto di singoli individui dominati dall’egoismo e indifferenti verso i diritti e le spettanze altrui, di solito indisciplinati e ossequenti solo alla forza. In seguito questo suo carattere non mutò sostanzialmente, specialmente nelle aree in cui era più marcato e diffuso. In specie i ceti meno abbienti non mutarono il proprio atavico carattere. Ancora nel XVIII e nel XIX secolo, in molte regioni italiane, prevalevano la mancanza di coesione nella popolazione, la disorganizzazione, l’inefficacia delle leggi, la caotica ribellione di individui e di gruppi nonché l’incapacità di mettersi al passo con la crescita economica di altri paesi europei. Non è arbitrario affermare che il carattere della popolazione romana e italica che si era andato formando nell’antichità, sfidò i secoli. Se si eccettua qualche sparuta eccezione, si manifestò nella persistente mancanza di coesione, di ossequio al dovere civico e nell’assenza di comuni ideali. Fu evidente nella società frazionata e recintata dei molti stati e poderi del medioevo e nelle rinate città degli albori dell’età moderna. All’inizio del quattordicesimo secolo, quel carattere caotico e quella disgregazione erano propri della società di ogni parte d’Italia. Destavano sgomento e sdegno, e Dante Alighieri non trattenne il proprio sfogo condannandoli aspramente in pochi scultorei versi: «Ahi, serva Italia di dolore ostello, nave senza nocchiero in gran tempesta, non donna di province, ma bordello!». E alcuni anni dopo, Francesco Petrarca non vedeva altro intorno a sé che simulacri e rovine, benché non rinunciasse a coltivare l’auspicio che «l’antico valor negli italici cor non è ancor morto». E cinque secoli dopo, agli inizi dell’ottocento, quell’immutato carattere, quel caos e quella mancanza di coesione e di unità di intenti fecero dire al ministro austriaco che l’Italia era «un’espressione geografica». E Metternich la definiva così non perché l’Italia era divisa politicamente, ma soprattutto per il prevalente carattere precario e conflittuale delle entità che la formavano e dei suoi abitanti.

In realtà anche allora, nei primi decenni dell’ottocento, quella mancanza di coesione e di intesa negli abitanti della penisola e delle isole si poteva spiegare guardando al lontano passato, a un’origine ormai dimenticata ma non mai scomparsa. Nel 1861, quando si giunse all’unità politica del paese, si constatò che l’Italia era fatta, ma che gli italiani erano ancora da fare. Dopo di allora, nei centocinquantanni seguenti, quel carattere persistette sostanzialmente immutato. Anche se assunsero forme diverse, il carattere litigioso di gran parte degli italiani a tutti i livelli, la loro mancanza di coesione, l’indefinita comune identità, il loro scarso attaccamento a comuni interessi, il loro debole entusiasmo per l’appartenenza alla terra natale e alle sue tradizioni, persistettero sempre. Non mutarono nonostante gli sforzi eroici di pochi uomini eccezionali e nonostante costituzioni e leggi. È arbitrario dire che la mancanza di coesione e la scarsa identità persistenti nel ventunesimo secolo siano eredità del carattere promiscuo e caotico formatosi nella popolazione nei secoli dell’antichità romana? Si può dire che, dai primi secoli dopo Cristo, durante il medioevo e l’età moderna e contemporanea, quanto di trasgressivo e di caotico c’è stato nel mondo, è nato in Italia. La confusione politica e istituzionale e le lotte tra fazioni, tra borghi, tra bande, tra casate, tra gruppi e tra individui furono ininterrotte durante i secoli del basso impero e del basso medioevo. Nei secoli successivi fu ininterrotta la guerra tra stati e staterelli e si perpetuò l’endemico conflitto tra famiglie e tra fazioni nelle città che si andavano formando anche per la fuga di ribelli e di avventurieri dalle campagne. Il banditismo, le rivolte, le congiure, le sommosse e quanto c’è al mondo di caotico e di confusionario non vennero meno nei secoli dell’età moderna. Da quello stato di cose caotico e confusionario sono emerse arte e ricchezza, a cui sono subentrate depressione e arretratezza fino all’epoca contemporanea. Lo Stato che nasce nel 1861 per la generosità e il genio di pochi antesignani, realizzando l’unità formale del paese, deve innanzitutto combattere al suo interno quanto di caotico, di disordinato e di confusionario si tramanda da secoli. Emerge presto la necessità di dovere agire in profondità e si fa evidente che è ardua l’impresa di dovere influire sulla mentalità atavica e sull’inveterato carattere di genti tra loro incomunicabili e litigiose, il cui incorreggibile individualismo non ha mai avuto un epilogo e non è mai potuto sfociare in una rivoluzione costruttiva. Si constata invece che quella mentalità e quel carattere sfociarono nel brigantaggio, nella più organizzata associazione criminale che ci sia mai stata sulla terra, nelle squadre violente e nella loro marcia comico-tragica, nelle milizie tricolori, nelle brigate nere e rosse. Sfociarono pure, tra l’altro, nel capitalismo di poche famiglie, anch’esso caotico e litigioso, e nello spettacolo di battibecchi, di chiacchiere, di litigi, di confusione, che offrono politici e politicanti a tutti i livelli, burocrati, funzionari, ufficiali, imprenditori, redditieri, giurisperiti, magistrati e gli innumerevoli abitanti di condomìni di città grandi e piccole. È pertanto assai difficile capire come sia stato e sia possibile che, in tanto caos e in tanta confusione, sia potuto e possa sopravvivere un corpo sociale che continua ad esistere formalmente unito. Non è facile capire come dal caos e dalla confusione di Napoli, di Palermo, di Reggio Calabria, di Bari siano potuti emergere la grande saggezza e l’esemplare equilibrio di tanti uomini illustri. È pure difficile capire come sia stato possibile che dalle lotte e dalle fazioni litigiose di Firenze siano scaturiti uomini che hanno dato lustro all’Italia e all’umanità. È inoltre difficile capire come sia stato possibile che dal caos, dalla confusione e dalle lotte operaie e contadine siano emersi individui e famiglie che, pur nel litigio, hanno creato e fatto progredire un capitalismo finanziario e industriale che ha retto al confronto con la concorrenza nel mondo.

Dagli anni quaranta del novecento, la Carta costituzionale varata durante il marasma seguìto al disastro bellico, guidò governi e istituzioni e segnò il corso seguìto da allora, ma poté influire poco sull’atavico carattere individualistico e caotico degli italiani. Al contrario, quel caos e quella confusione con radici millenarie trovarono nella Costituzione il mezzo garantista e liberale per persistere senza freni né remore. In tal modo, ai malanni vecchi e ancestrali si aggiunsero quelli nuovi che, in qualche generazione, accrebbero l’antico malessere emulando anche vizi e difetti di paesi già da tempo ricchi e opulenti. Da quegli anni quaranta al secondo decennio del duemila movimenti e partiti politici, fazioni, poteri dello stato, poteri occulti, organizzazioni fuorilegge, gruppi eversivi sono in guerra più o meno palese. I contrasti tra i loro esponenti sono infiniti e le dispute continue e assordanti. I rapporti costituzionali formalmente liberali e democratici mutano nella prassi e sono eterni conflitti tra individui, tra gruppi, tra poteri, che mirano a prevalere per affermare interessi di parte, di bottega, di clan, di famiglie. Il sistema pluripartitico o bipartitico di organizzazione politica è instabile e confusionario. Le diverse e opposte parti sono in rapporti conflittuali e le loro alleanze sono fragili, contratte da ognuna per il proprio esclusivo interesse. E per prevalere i loro esponenti ricorrono a ogni mezzo, che va dalla denigrazione alla menzogna, alla calunnia, all’accusa infondata e che essi difendono con prolissi discorsi, con sottili distinzioni, con ragionamenti bizantini con cui dimostrano tutto e il contrario di tutto. Nel caos e nella confusione si perpetua così il carattere atavico degli italiani, litigioso e conflittuale. Come nell’antichità romana, oggi il capitale sta producendo effetti insieme positivi e negativi. Mentre contribuisce ad alimentare la crescita economica e l’aumento del benessere materiale, sfocia nel deterioramento del costume, nella diminuzione della popolazione attiva e produttiva, nel vuoto demografico e nella necessità di coprirlo, come nell’antichità, con l’immigrazione. Come nel lontano passato, gli effetti che produce il capitale sono contraddittori: migliorano le condizioni materiali della popolazione e, nello stesso tempo, distruggono le sue risorse umane e la sua forza vitale. Rendono quindi necessario integrare quelle risorse e quelle forze con l’afflusso di immigrati. E questo avviene anche se quel loro afflusso è eccessivo, disordinato e caotico, e crea nel paese promiscuità e sconvolgimento sociale. Si verifica pure che i danni che quell’afflusso può produrre non destano alcuna preoccupazione, un minimo allarme in molti italiani, almeno nella grandissima parte di essi. Certo, gli immigrati e i loro discendenti trovano conveniente la convivenza acquisita, i vantaggi dell’istruzione e dell’acclimatazione. Si constata però che essi, dopo generazioni, non superano la barriera dell’estraneità, della profonda e sostanziale diversità. Si integrano formalmente nell’ambiente ormai loro e dei loro padri, ma non si integrano mai sostanzialmente nel corpo sociale. Fanno parte di una società disomogenea, composta di individui formalmente vicini e partecipi, ma estranei e lontani gli uni gli altri. I quali trovano che sia conveniente continuare a vivere, a lavorare, ad arricchirsi e a gozzovigliare insieme, pur senza dovere superare l’invalicabile muro dell’estraneità e dell’indifferenza verso i conterranei. Mentre restano sempre sostanzialmente estranei agli interessi comuni, indifferenti alle sorti del paese di adozione e attenti solo alle proprie esigenze di successo e di sopravvivenza.

È utile tenere conto delle conseguenze che può avere il modo di essere e di agire degli innumerevoli individui immigrati nella società dei paesi avanzati del ventunesimo secolo. Può accadere che tanti individui di diversa provenienza ed estrazione formino una comunità di estranei, un corpo sociale senza anima, una moltitudine crescente di individui tenuti insieme dalla forza delle istituzioni, finché queste saranno in grado di svolgere la propria funzione e di imporre la propria autorità. L’amalgama tra autoctoni e nuovi venuti non ci fu mai. Non ci fu nell’antichità, in diversi secoli in cui ebbe tutto il tempo per realizzarsi, in quel clima di cosmopolitismo che tanto somiglia alla globalizzazione. Non ci fu dall’antichità ai nostri giorni, nei molti secoli di endemico sconvolgimento e di disunione sociale e politica. Non è certo con la conoscenza della lingua e della Costituzione del paese ospitante, con il diritto di voto, con l’acquisizione della cittadinanza in cinque o dieci anni, che si può realizzare l’integrazione o la coesione o l’amalgama. Neppure altre condizioni, come la scuola e l’istruzione, possono agire in profondità. In genere, l’immigrato si sente, è e rimane sostanzialmente estraneo, con o senza la conoscenza della lingua e della Costituzione, con o senza uguaglianza di diritti. Anzi, diviene presto inadatto a svolgere il lavoro per il quale è stato necessario ricorrere al suo apporto perché, avendo egli migliorato la sua condizione sociale, aspira ad altro e non più a sostituire la manodopera mancante. La sostanziale integrazione non si può concepire disgiunta dall’acquisizione del profondo sentimento di appartenenza alla comunità e di attaccamento alle istituzioni e alle tradizioni del paese in cui si vive. L’adempimento del dovere civico e l’osservanza delle leggi non mutano il senso di estraneità. E pertanto l’integrazione cui si fa spesso riferimento, da realizzare in un quinquennio o in un decennio o in diverse generazioni, è solo integrazione formale, determinata dalla convenienza e dal bisogno di sopravvivenza. Non sono le leggi né i provvedimenti del governo e neppure la scuola che possono mutare l’integrazione formale in integrazione sostanziale. La radicale diversità di milioni di individui e la promiscuità che nacque rivelarono nel lontano passato e nei due millenni che seguirono quanto esse rendessero inconciliabili e non amalgamabili genti tanto eterogenee. La miscela sociale che si formò allora trasmise il suo carattere disomogeneo e conflittuale nei secoli. E questo è oggi il carattere degli italiani. Il carattere della società promiscua di Roma antica lo troviamo in ogni regione d’Italia nel medioevo e nell’età moderna e contemporanea. L’endemico conflitto è sempre stato presente in Italia, nei suoi abitanti di ogni condizione, di ogni livello sociale e culturale. È stato proprio della condotta dei servi e dei padroni nei latifondi e nei poderi; degli abitanti delle contee, dei comuni, delle signorie, degli stati laici ed ecclesiastici e poi di quello nazionale. È stato frequente, e quasi continuo, nei conventi e negli altri luoghi religiosi, nelle caserme e nelle milizie, nelle scuole, nelle università, negli uffici, nelle aziende. Nei due millenni trascorsi ha lasciato il segno nelle città e nelle campagne. In ogni rapporto e in ogni attività, in ogni strato e ceto sociale è sempre regnato il dissidio, il contrasto cieco e irragionevole, la lotta occulta e palese. In Italia la società mutò consistenza numerica, composizione, condizione, ma non mutò quel suo carattere acquisito nel passato. Nei molti secoli del medioevo e dell’età moderna e contemporanea essa fu afflitta da continui sconvolgimenti. Si susseguirono invasioni, lotte tra e nei latifondi e poi tra e nei feudi, conflitti tra contadi, ducati, abbazie, comuni, signorie, e al loro interno. I suoi abitanti, sudditi o cittadini, vissero di solito in conflitto, gli uni contro gli altri, in alto e in basso, nel governo, nel parlamento, negli organi giudiziari, negli enti, negli uffici, nei condomini, nei rapporti umani e di lavoro. Quando poté, ognuno di essi grattò o cercò di grattare qualcosa a un altro, al cliente, alla comunità o allo stato. Fu questa sempre ed è l’endemica lotta sorda e occulta che permane da secoli.

Molti autori in numerosi scritti hanno percorso la storia di singole parti e regioni d’Italia e di periodi diversi. Negli ultimi decenni del novecento Indro Montanelli, Roberto Gervaso e Mario Cervi, in una serie di contributi, percorrono l’intera storia d’Italia dall’antichità ai nostri giorni e non più solo singoli tratti e singole parti di essa. La loro è una visione d’insieme nuova, eccellente e utile, che rompe con la tradizione storiografica che, se si eccettua l’opera di Ludovico Antonio Muratori, volse sempre l’attenzione alle singole parti del paese e a limitati periodi. Dal loro contributo si possono facilmente ricavare le prove di quanto abbiamo sopra cercato di spiegare. Con la conflittualità che si protrasse nei secoli emerge la particolarità del carattere e del comportamento di molti italiani. Emerge il loro modo di essere e di agire che, relativamente agli anni sessanta del novecento, provocò il giudizio espresso dai tre autori nel 1993 in «L’Italia degli anni di fango», che val la pena riportare. «Forse – essi scrivono – la spiegazione più verosimile [della condotta di particolari personaggi] sta nello spirito gregario e conformista degli italiani, falsi individualisti ed autentici uomini di branco, che cercano disperatamente – soprattutto gli italiani inseriti negli ingranaggi politici o amministrativi – appoggi, maniglie, assicurazioni, controassicurazioni. Per mantenere una poltrona, per conquistarne un’altra, per garantirsi – i grands commis – una qualche nicchia privilegiata – una presidenza o un consiglio d’amministrazione – da occupare quando scatterà la pensione. In questa insaziabilità e in questa insicurezza stanno le molle più forti del successo ottenuto dalla P2: e si deve pensare che Gelli avesse un’abilità diabolica – non per niente fu detto Belfagor, restando a Giulio Andreotti il nomignolo di Belzebù – nel far balenare davanti agli occhi di quei tremebondi ambiziosi altre cariche, altri onori, altre prebende.» Questa sentenza emessa dai tre autori rimarca la morbosa corsa d’eminenti personaggi, di gente abbastanza provveduta, alla scalata di carriere, alla ricerca di garanzie, di più alti ruoli, di più remunerati appannaggi, e di più grandi poltrone. Sono insaziabili arrivisti. Sono 119 alti ufficiali delle forze dell’ordine e dell’esercito, magistrati, parlamentari, ministri, individui che hanno «raggiunto posizioni eminenti e ottenuto grandi soddisfazioni» e che, nonostante quelle loro invidiabili posizioni, mirano ad altro senza ritegno, sempre più oltre e più in alto. Il loro è uno degli aspetti del carattere degli italiani «falsi individualisti e autentici uomini di branco». È l’aspetto di un carattere diffuso non solo nei ceti alti e dirigenti, ma in ogni settore della società, negli individui di ogni condizione, anche nei meno fortunati e nei meno provveduti, i quali, se e quando possono, fanno come e forse peggio delle eminenze. Nei secoli la società italiana non si spogliò mai del suo carattere atavico. Nella massima parte gli italiani non nutrirono mai un profondo sentimento della propria identità, non ebbero mai unità d’intenti, punti fermi di riferimento, coesione sociale, spontanee tacite intese. In alto e in basso, signori, potenti e no, laici ed ecclesiastici cercarono sempre negli altri, fuori dei loro possessi e dei loro stati, in Francia e in Germania, ausilio per procurarsi la difesa, per combattere il nemico loro prossimo e per superare ostacoli e momenti difficili. All’interno dei singoli stati, signorie e repubbliche in cui era diviso il paese, in massima parte gli abitanti, in alto e in basso, vissero in un clima di conflitto, di scontro. L’inizio di questa trasformazione che afflisse e affligge la popolazione italiana fu dunque il prodotto dell’immigrazione, della disordinata e caotica invasione del suolo italico nel lontano passato. Oltre quindici secoli dopo, una perniciosa setta segreta si inserì in una parte del paese da tempo sconvoltodalla ormai secolare promiscuità e conflittualità sociale. La setta, un’associazione che nel cinquecento giunse dalla Spagna, si ramificò prendendo il nome di camorra, di mafia, di ‘ndrangheta. Con il suo avvento il paese si arricchì di una conflittualità del tutto particolare, che si aggiunse all’esistente conflittualità sociale e ne accrebbe gli effetti. Il turbamento sociale e i danni che produssero e producono le sue azioni sono noti, sono stati minutamente sviscerati in innumerevoli scritti. È superfluo pertanto che ora qui riesponiamo ed esaminiamo quei suoi deleteri effetti che sono noti nei minimi particolari. Questo turbamento prodotto dalla setta non fu l’ultimo. Nel terzultimo decennio del novecento nacque, crebbe e si assommò a quelli esistenti un terzo sconvolgimento tanto somigliante a quello prodotto nell’antichità. Una miriade di individui di razze, di provenienze, di costumi e di credi diversi e lontani, si riversò in Italia mutandone i connotati e attentando ai costumi, alle abitudini e alle conquiste civili del paese. Fu un flusso migratorio eccessivo e caotico che continua ininterrotto dagli anni settanta del novecento, e nessuno può sapere se e quando esso avrà fine. La derivante invasione e la promiscuità di individui di eterogenea provenienza ed estrazione producono evidenti effetti conflittuali che si aggiungono a quelli prodotti dalle altre due precedenti calamità. Certo, lo sconvolgimento che subisce il corpo sociale è parzialmente compensato dall’utilizzo dell’apporto lavorativo regolare e irregolare di una parte dei nuovi venuti. Ma la massima parte di essi produce nell’immediato e nel futuro danni, sconvolgimento e conflitto. Produce effetti deleteri che sono sotto gli occhi di tutti e che in tanti anni la pubblicistica ha minutamente esaminati. È pertanto ora superfluo intrattenerci. Osserviamo solo che ai precedenti due eventi calamitosi (il retaggio del lontano passato e della criminalità organizzata) se ne aggiunge un terzo derivante dall’ininterrotta immigrazione. Con essa, alla conflittualità, retaggio del passato, si aggiunge la nuova. Non è dunque sorprendente che nel terzo decennio del duemila il conflitto sia continuo anche nel parlamento e nel governo, e tra i loro membri.

Nei secoli, dunque, la conflittualità si protrasse e imperversò a tutti i livelli e in tutti i settori. Fu evidente – come si è detto – tra dominatori e dominati, tra potentati e potentati, tra signori e servi, spesso gli uni contro gli altri o in endemica rivolta. Fu sempre contenuta, frenata e, spesso, repressa. La repressero latifondisti, feudatari, potenti laici ed ecclesiastici. Ancora dopo l’unità d’Italia, sul finire dell’ottocento, Abele Damiani constatava che il padrone in Sicilia tratta il contadino come uno schiavo, con ingiurie e disumanità; e costui, in cambio, restituisce pan per focaccia, quando può, con la sua sorda e occulta resistenza passiva. Quando, in certi brevi periodi, ultimo dei quali quello attuale che iniziò al termine della seconda guerra mondiale, la coercizione venne meno, il libertinaggio, la conflittualità riprese vigore e si scatenò. E questo avvenne e avviene a ogni livello e in ogni settore, in alto e in basso.

Il carattere contratto nell’antichità da romani e italici sfociò sempre, anche dopo millenni, nel disfacimento e nella disunità, nella disgregazione sociale e politica. Nel lontano passato, quel carattere degenere si diffuse portando in sé il generale decadimento, la promiscuità dei costumi, lo smarrimento dei valori e sfociò nel conseguente crollo delle istituzioni un tempo gloriose. Il popolo romano e italico da tempo molle e imbelle non avvertì neppure la irreparabile gravità dell’incomprensibile atto che il senato decretò nel quinto secolo dopo Cristo. L’avvertirono invece gli imperiali d’Oriente i quali stentarono a credere che il nefasto provvedimento fosse vero, che il senato di Roma avesse decretato la propria fine e quella dell’impero d’Occidente, e non nascosero il proprio sdegno e il proprio gridato disprezzo per quei senatori di Roma loro omologhi che avevano decretato a cuor leggero tanto disastro e una fine tanto ingloriosa. Ma quell’atto tanto disapprovato e detestato non era sorprendente. In quel quinto secolo dopo Cristo i senatori di Roma erano mille miglia lontani dai loro antichi predecessori. Di costoro certo continuavano a portare il titolo, ma erano individui senza ideali, senza punti fermi di riferimento e senza programmi e scopi politici e miravano solo a conservare i propri possessi, i propri latifondi e le proprie lussuose ville e a evitare anche la parziale espropriazione di quei loro possessi e la loro assegnazione a minacciosi e ormai onnipotenti barbari invasori e dominatori. Unico scopo di quei senatori era la difesa del proprio particolare interesse, indifferenti com’erano all’interesse generale, della comunità, del paese e tantomeno del popolo, che a sua volta era altrettanto estraneo indifferente e imbelle e non fu neppure scalfito dalle disastrose novità. In quel quinto secolo, un siffatto popolo e i suoi governanti resero possibile con la loro condotta la sorprendente e incredibile fine dell’impero e delle sue secolari istituzioni. Mille e ottocento anni dopo, nel XIX secolo, il popolo italiano mostra di non avere in sé tare diverse da quelle degli antichi romani e italici. Allora, nel quinto secolo, il popolo romano e italico non diede segni di sé, fu assente e restò indifferente ed estraneo alla disastrosa fine dell’impero e delle sue istituzioni. Nell’ottocento il popolo italiano è nella quasi totalità assente, indifferente ed estraneo ai progetti e alle azioni di pochi eroi che sfoceranno nell’unità del paese e delle sue istituzioni. Mentre nel quinto secolo dopo Cristo il popolo degenere non si accorse del disastro prodotto dalle azioni di pochi, nel diciannovesimo secolo dell’era volgare il popolo è e resta estraneo alle azioni costruttive dei pochi eroi del Risorgimento. Dopo molti secoli, mostra di non avere tare diverse da quelle dell’antico popolo romano e italico. Allora la sua patologica assenza non avvertì neppure la fine dell’impero e delle sue istituzioni, tanti secoli dopo la sua altrettanto patologica assenza frena, ritarda e ostacola l’unità d’Italia, la ricomposizione del paese e delle sue istituzioni. Di solito l’azione del popolo rende molto più difficili le azioni clandestine degli eroi del Risorgimento e non di rado intralcia e ostacola le iniziative di pochi eroici idealisti, che hanno trovato la morte travolti da torme di bifolchi ignorantissimi che in rivolta e armati di forconi difendono i nemici di quanti mirano all’unità nazionale e alla ricomposizione del paese e delle sue istituzioni. E queste inaudite imprese sono perpetrate dalla massima parte del popolo italiano in anni in cui il progresso e le conquiste civili nel mondo rendono anacronistico e insopportabile il dominio straniero di un paese mantenuto a brandelli con la prepotenza e con la forza. Il popolo italiano caotico e conflittuale rimase in molti secoli uguale a se stesso. Eppure in quei secoli del medioevo e dell’età moderna, e precisamente dal decimo secolo, si andò formando la borghesia, un minuscolo ceto attivo e produttivo che nacque nei borghi delle città italiane allora, inizio del secondo millennio, in espansione. Era formato di cittadini liberi, benestanti, possidenti, mercanti, imprenditori. Nel suo seno, andò crescendo anche un folto gruppo di intellettuali, i quali soprattutto tracciarono la via da seguire. Tra l’altro cercarono di far prevalere nella società l’interesse generale su quello particolare e, dopo secoli di divisione e di spezzettamento del paese, di far nascere l’esigenza di ricomporne le membra da secoli divise ripristinando l’unità nazionale che i senatori di Roma antica avevano frantumato. Furono non di rado gli unici artefici di quel che di buono e ammirevole fu fatto in Italia. Nel secolo XV fecero brillare il paese di luce propria, lo fecero rinascere, nonostante la persistente divisione politica, e meritarono il plauso universale e l’emulazione di molti altri popoli del mondo. Nel secolo XIX, operarono con eccezionale impegno, insieme con altri illuminati, per mobilitare il popolo al fine di farlo partecipe dell’anelito al conseguimento dell’unità nazionale e dei loro tentativi di giungere a ricomporre il paese smembrato da secoli. Gli ideali e i progetti di alcuni di loro si tradussero nella realizzazione dell’unità politica del paese, ma si scontrarono con le millenarie tare persistenti nella quasi totalità del popolo. Il risultato dello scontro fu la constatazione della persistenza dell’annoso male endemico e questo conferì fondamento alla convinzione allora coniata nel detto che l’Italia era fatta ma che bisognava fare gli italiani.

di Francesco Caracciolo
già prof. ordinario nell’Università di Messina
www.francescocaracciolo.it
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