La permanente caotica conflittualità in Italia.
Il morbo, atavico, organizzato, importato.
Il lontano passato e il presente. Versione riveduta.
di Francesco Caracciolo

Il governo italiano e il parlamento (e non solo essi) offrono sovente spettacoli che forse non si verificarono mai nel governo e nel parlamento di nessun altro paese del mondo. I contrasti, i continui litigi, le reciproche pesanti accuse, il persistente e crescente conflitto fra i suoi componenti rendono necessario cercarne le cause. Inducono a capire se il carattere litigioso e caotico sia solo dei componenti dei più elevati organi costituzionali o sia pure da scoprire quanto esso sia esteso nella società, nei ceti sociali e nella massima parte dei singoli individui. Tutto questo si può capire e scoprire osservando la società italiana e il suo funzionamento amministrativo, politico e istituzionale. Il risultato di un’accurata osservazione può confermare ciò che è evidente e a conoscenza di tutti. La società italiana è eccezionale, ha un carattere particolare, assai diverso da quello della società di altri paesi europei e occidentali, anche di quelli che hanno le sue stesse radici nel lontano passato. Per cercare e spiegare la notevole differenza del carattere di popoli che furono protagonisti delle stesse vicissitudini e che costruirono la stessa civiltà occorre condurre un esame approfondito non solo della società del presente ma anche di quella del lontano passato. Si potrà così osservare il particolare carattere degli italiani e constatare la differenza da quello degli altri popoli affini. Si potranno scoprire le cause di tanta particolarità e di tanta differenza risalendo all’antica Roma, al suo cosmopolitismo, al miscuglio di molte razze nella capitale, nella penisola e nelle isole italiche, e alla sostituzione etnica il cui carattere invasivo rimase immutato nei secoli. Si potrà scoprire che quel che avvenne nell’antica Roma è all’origine dell’estraneità, del buonismo, della disunità, della disaffezione della massima parte degli italiani alla comunità, alle istituzioni, allo stato nei secoli che seguirono.

In Italia è scarso il numero di coloro che sono intimamente ossequiosi e dediti alla comunità, allo stato e alla difesa dei comuni interessi. È invece stragrande il numero di coloro che privilegiano più o meno apertamente l’interesse particolare, proprio, familiare, di clan, di conventicola, di partito a ogni altro interesse e che, di solito, disconoscono, trascurano e osteggiano l’interesse generale, pubblico, della comunità e dello stato. Molti di costoro sono buonisti, permissivisti, impregnati di ideologie obsolete che essi pretendono di applicare a realtà obiettive profondamente mutate. Con il loro lassismo e con il loro fanatismo ideologico affossano e distruggono quel che rimane dell’identità, dei valori e delle tradizioni del paese nel quale vivono e operano. Essi persistono nel loro lassismo e fanatismo anche quando il loro buonismo è a pro di nemici e affossatori della comunità, dello stato, del proprio paese, delle tradizioni e della civiltà. Non è questa un’invenzione senza concreto fondamento, ma la constatazione di quel che avviene nei rapporti umani e nell’insieme della società civile. Per constatarlo e provare le conseguenze dell’anomalo comportamento collettivo, ovvero della somma di decine di milioni di azioni particolaristiche, basta osservare non solo quel che avviene nella società, nell’amministrazione, nella politica, ma anche quel che è avvenuto nel corso delle guerre, nei molti conflitti che l’Italia ha combattuto per la propria indipendenza e dopo l’unità del paese fino ai nostri giorni. Nei momenti critici, di solito, il dissidio più o meno nascosto tra generali e comandanti prevalse sulla loro concorde azione che avesse unità d’intenti e mirasse a comuni strategie e a comuni scopi. Basta constatare tutto ciò senza contare quel che avvenne nei molti secoli precedenti, nel medioevo e nell’età moderna, quando comunità, staterelli, repubbliche, signorie, potentati, monasteri e ricchi detentori di latifondi rivelarono sempre il loro comportamento servile, la loro rassegnata sottomissione al forte e specialmente al potente straniero d’oltralpe. Basta constatare la totale mancanza di ribellione collettiva organizzata ed efficace ai soprusi di dominatori specialmente stranieri. La generale succube rassegnazione fu interrotta solo dalla sporadica e caotica ribellione di disperati organizzati nell’endemico banditismo, nel brigantaggio, nella criminalità di mafia, camorra, ‘drangheta e sacra corona unita.

Tutto questo consente di capire perché l’italiano è tanto diverso dal francese o dallo spagnolo o anche dal tedesco nonostante la lontana comune radice culturale. Consente pure di spiegare perché gli abitanti della penisola italica non furono mai protagonisti di una seria e risolutiva rivoluzione o di una collettiva rivolta contro il sopruso e le soverchierie dei dominatori. Quel che avvenne nell’antica Roma è uno dei tre morbi che abbiamo menzionati nel titolo. È un morbo atavico, il più esteso ed incisivo. Esso può farci scoprire le radici remote del presente, di quanto avviene oggi in Italia. È perciò necessario esaminare attentamente quel che avvenne nel lontano passato per conoscere l’origine del particolare carattere degli italiani. L’esame può farci scoprire che la lontana radice è stata determinante molto più di ogni altro apporto di invasori e di dominatori che si è aggiunto nei secoli del medioevo e dell’età moderna. Nell’antichità romana e italica il capitale dovette sopperire alla scarsissima disponibilità di manodopera e fece ricorso all’importazione di moltissime braccia da tutte le province della repubblica e poi dell’impero. Si dovevano coltivare terre di ogni dimensione e latifondi e dall’inizio del secondo secolo avanti Cristo milioni di individui invasero Roma, le altre città e le campagne. Da allora andò crescendo e poi prevalendo il numero dei nuovi venuti fino a concretizzare la sostituzione etnica, la crisi dei valori, il catastrofico crollo delle istituzioni e la fine della civiltà. Nello stesso tempo, andarono aumentando la promiscuità di lingue, di culture e di razze e lo sconvolgimento sociale. Il miscuglio di costumi, di abitudini e di modi di vivere andò condizionando i rapporti umani e forgiando un nuovo carattere della popolazione che crebbe, divenne predominante fino a sostituire il carattere esistente degli autoctoni. Negli abitanti di Roma e d’Italia andò crescendo l’interesse egoistico e particolaristico, proteso alla conquista del privato benessere e delle comodità personali, e andò decrescendo l’attaccamento alla comunità e allo stato, la devozione all’autorità e al potere pubblico e l’affezione alle istituzioni, ai valori e alla tradizione. Questo prevalente modo di essere, di pensare e di operare si protrasse nei secoli e, nonostante numerosi altri afflussi di altri invasori che si succedettero nel tempo, percorse il medioevo e l’età moderna e fu ed è il carattere degli italiani. È pertanto necessario osservare attentamente il carattere che si andò formando nell’antichità romana, che è il padre dell’odierno carattere degli italiani e che abbiamo definito morbo atavico.

Com’è specificato nel titolo, il morbo è uno e trino. Il primo morbo ha origine nel lontano passato e di esso cerchiamo di rievocare l’essenziale. Nel 202 avanti Cristo la battaglia di Zama poneva fine alla seconda guerra punica. La vittoria riportata dai romani fu il principale e decisivo successo militare dopo il disastro di Canne. Le conquiste che seguirono accrebbero i traffici nel Mediterraneo e resero possibile un notevole aumento dell’afflusso di grano dalla Sardegna, dalla Sicilia, dall’Africa e dalla Spagna a basso prezzo, minore di quello del grano che si produceva in Italia. Furono danneggiati la produzione e i piccoli e medi produttori di grano della penisola. Se ne avvantaggiarono i grandi proprietari che resistettero alla concorrenza e accrebbero i loro latifondi acquistando le piccole e medie proprietà che molti coltivatori diretti non poterono più tenere. Molti di costoro furono rovinati, divennero nullatenenti e trovarono rifugio nelle città. I latifondi cresciuti a dismisura ne risentirono. Ebbero carenza di braccia. Vi sopperirono incrementando la pastorizia a danno dell’agricoltura. Ma questo rimedio non fu sufficiente, non colmò la carenza di manodopera: i latifondi restavano incolti o poco coltivati. Molti coltivatori erano divenuti cittadini nullatenenti, molti altri avevano lasciato non solo la campagna ma anche la penisola nella veste di soldati, di amministratori o di mercanti. La carenza di manodopera andò crescendo non solo nell’agricoltura e vi si sopperì importandola. Da quegli anni dell’inizio del secondo secolo avanti Cristo e ancor più dal 168, anno della battaglia di Pidna e della conquista definitiva della Grecia e di alcune province d’Oriente, il flusso di immigrati in Italia fu enorme e si protrasse per oltre duecentocinquant’anni. Dalla seconda metà del primo secolo dopo Cristo quel flusso si andò assottigliando. Ma fino ad allora gli esseri umani che dai quattro punti cardinali giungevano in Italia furono milioni. In massima parte erano schiavi che provenivano dalle conquiste militari, in parte erano comprati a decine di migliaia in ogni parte del mondo divenuta provincia romana. Affluirono in Italia e colmarono il vuoto di manodopera non solo nelle campagne. Invasero il paese sostituendo in moltissime attività l’elemento romano, latino e italico sempre meno numeroso. Al tempo di Giulio Cesare greci, siriani ed ebrei formavano insieme la maggioranza della popolazione di Roma. L’eterogenea presenza di tanti stranieri, che certo acquisirono una qualche integrazione formale, fu sconvolgente: influì sui costumi e le abitudini, alterò i rapporti umani e sociali e minò le tradizioni e i valori. Con la promiscuità e la conflittualità generò quanto di patologico si può rilevare nella società romana e italica dei secoli seguenti. Si può dire che il bisogno di maggiore produzione, la mancanza di sufficiente manodopera e la necessità di sopperirvi furono principali cause del progressivo deterioramento, dello sconvolgimento della società di Roma antica allora e nei secoli seguenti.

Cfr. Francesco Caracciolo, L'integrazione dell'«arcipelago migratorio» in Occidente, edito da "La Feltrinelli" e da "Il mio libro"; Francesco Caracciolo, Come muore una civiltà e come sta morendo la nostra, edito da "La Feltrinelli" e da "Il mio libro".

Il secondo morbo è meno remoto. Nel secolo sedicesimo una setta importata dalla Spagna si diffuse con nomi diversi in alcune città del Sud d’Italia. La sua crescita fu esponenziale e introdusse patologici rapporti umani e sociali che si aggiunsero alle annose tare che la società italiana ereditava dal lontano passato.

Cfr. Francesco Caracciolo, Onorata società e società onorata, edito da "Il mio libro".

Il terzo morbo è recente. Si diffuse in Italia dagli anni settanta del novecento. Fu il risultato dell’immigrazione indiscriminata. Come quella che imperversò nell’antichità romana, essa cominciò ad affluire in Italia dopo avere invaso altri paesi non solo europei, come la Francia, il Regno Unito, il Portogallo e poi la Germania e altri.

Cfr. Francesco Caracciolo, Mali estremi, edito da "La Feltrinelli" e da "Il mio libro"; Francesco Caracciolo, La folle corsa, edito da "La Feltrinelli" e da "Il mio libro"

Il primo dei tre morbi ebbe dunque origine da obiettive esigenze economiche e sociali e da ingordigia di ricchezza e di potere che imposero il ricorso a risorse umane non autoctone per sopperirvi. A questa necessità si aggiunse la convenienza che ebbe il capitale di trarre utili e profitto importando milioni di individui. Il loro disordinato afflusso e il loro numero eccessivo crearono nel paese effetti sconvolgenti ed endemica conflittualità. Il secondo morbo nasce molto tempo dopo da un atto costitutivo, dal trapianto di una setta spagnola in alcune città del Sud d’Italia. Quando il primo morbo da secoli aveva già mutato profondamente il carattere della società e dei suoi componenti, nel sedicesimo secolo il secondo morbo si aggiunse a quello esistente e trovò nel buonismo della gente terreno ideale per assestarsi, crescere ed espandersi. Anch’esso divenne morbo endemico, criminalità organizzata, flagello e anch’esso generatore di conflittualità. Il terzo morbo cominciò ad inserirsi in Italia quattro secoli dopo, negli anni settanta del novecento, quando la società con in corpo gli effetti dei due morbi avvertiva i benefici di un faticato benessere conseguente alla disastrosa seconda guerra mondiale. Trovò un ambiente propizio nella patologica benevolenza e nell’incondizionata accoglienza della gente e dei suoi rappresentanti e crebbe e cresce a dismisura, si diffuse e si diffonde in città e contrade e, come gli altri morbi, alimentò e alimenta conflittualità, sconvolgimento e la massima parte delle tensioni sociali. Come nel lontano passato, produsse e continua a produrre malaugurato disastro che è la conseguenza dell’afflusso continuo di innumerevoli individui dall’etnìa più diversa che. da allora, dagli anni settanta del novecento, continua a invadere e ad occupare il paese accingendosi a sostituirne gli autoctoni. Quanto abbiamo esposto fin qui può riuscire non solo incomprensibile perché è troppo sintetico ma anche assurdo perché indica origini troppo lontane di tare e difetti della società odierna nella società di oltre venti secoli or sono. È perciò necessario rendere comprensibile l’esposizione con un’analisi accurata degli eventi e dimostrare il nesso tra passato e presente. Occorre cioè spiegare che, come è avvenuto nella società dell’antichità romana, quando al continuo ed eccessivo afflusso di eterogenei immigrati seguirono eccessiva promiscuità, sconvolgimento, sostituzione etnica, crisi dei valori, scomparsa delle tradizioni, crollo delle istituzioni e fine della civiltà, sta per accadere oggi nell’odierna società italiana e non solo in essa. Seguiamo ora passo passo quanto avvenne nel lontano passato e in oltre venti secoli per cercare di rendere compresibile quanto abbiamo esposto.

Nell’antichità la città di Roma unì varie genti e popoli vicini e affini di costume, di modi di vivere e di credi religiosi. L’unione si espanse e il dominio di Roma si estese alla penisola italica e alle isole. L’affinità delle diverse genti unite e confederate rese facile e conseguente la loro coesione e il loro amalgama. Tranne qualche defezione e qualche dissidio che si manifestarono nel tempo, l’unione delle genti italiche non generò inadattamento, insofferenza, disintegrazione e conflittualità. Al contrario, tante genti si sentirono di un’unica appartenenza e con una sola identità. L’espansione romana continuò. Il dominio della città si estese a paesi e a popoli diversi e lontani e non affini come i popoli delle città italiche. A differenza delle genti italiche, quei popoli avevano costumi, modi di vivere e fedi religiose diversi da quelli romani e italici. Non erano popoli che potevano dirsi per molti aspetti affini tra loro e con il dominatore. La tolleranza dei Romani superò molte difficoltà nascenti dalla diversità di quei popoli conquistati. Il potere romano unì tanti popoli diversi e li ridusse sotto le stesse leggi e a comunicare nella stessa lingua. Ma i costumi, il modo di vivere, il senso di appartenenza e il credo religioso di quei popoli lontani e diversi restarono pressoché immutati. Intanto per potere diffondere il proprio dominio e il proprio potere, Roma e l’Italia si andarono spogliando di molti dei loro propri cittadini. In gran numero costoro furono inviati nelle lontane province a fare i soldati, i funzionari, gli amministratori. Anche per questo, il paese si andò sempre più spopolando. Crebbe la carenza di braccia e con essa la necessità di colmarla. I detentori del potere e della ricchezza corsero ai ripari. Provvidero a munire di sufficienti braccia i loro latifondi e le loro ricche dimore. Per alimentare la loro propria ricchezza, in parte coincidente con quella pubblica dell’intero paese, sopperirono alla mancanza di manodopera e di amministratori dei loro possessi ricorrendo alla sfrenata importazione di stranieri che nel tempo divennero milioni. In massima parte, costoro erano schiavi provenienti dai quattro punti cardinali, dalle province più diverse e lontane della repubblica e poi dell’impero. Nel primo secolo avanti Cristo, negli ultimi anni della repubblica, Roma pullulava di esseri umani provenienti da ogni parte del mondo. Era tutta gente originaria e oriunda dei quattro punti cardinali. Schiavi frigi, siri, elleni si mischiavano con libi e mauritani, geti ed iberi, celti e germani e affluivano sempre più numerosi. Come innumerevoli schiavi in città, spesso colti o semicolti, servivano nelle case delle grandi famiglie, altre masse di schiavi lavoravano nelle campagne e nei latifondi. Parte della popolazione della capitale era composta di individui non più schiavi, ma emancipati di diritto o, molto spesso, solo di fatto, e di essi molti erano poveri e poverissimi e non pochi ricchi e ricchissimi. Non erano più schiavi, ma neppure erano completamente cittadini. Dipendevano da un padrone. Esercitavano il piccolo commercio e formavano il gran numero degli artigiani. Erano liberti che affollavano il foro, influivano sull’esito delle elezioni dei magistrati, prendevano parte ad ogni manifestazione e non mancavano nelle prime file nei frequenti tumulti di piazza. Liberti e schiavi, greci, giudei e di ogni altra provenienza presenziavano in gran numero alle pubbliche assemblee ed erano i più forti urlatori e i più assidui seguaci dei demagoghi. In quegli ultimi anni della repubblica, nel pieno della potenza romana, era già manifesta una notevole promiscuità di razze e di individui di varia provenienza non solo nella capitale ma, più o meno, in ogni altra città italica. Già da tempo numerosissimi esseri umani, schiavi e liberti, si ritrovavano insieme sul territorio italico, nelle campagne e nelle città, senza avere unità di ideali, di vita e di intenti, ma solo la comune volontà di sopravvivere. Tanti stranieri soddisfacevano le esigenze della speculazione e integravano o sostituivano l’insufficiente o la mancante forza lavoro autoctona. Colmavano il vuoto che si era creato perché una considerevole parte della popolazione del paese era emigrata, dedita alle armi, al commercio e all’amministrazione delle lontane province, e, di solito, non tornava più in patria, dove l’elemento romano e latino andava scomparendo o era quasi del tutto scomparso. Mentre così gran parte d’Italia si svuotava dei propri abitanti, riceveva un’eterogenea popolazione proveniente dalle più diverse province d’oltremare e d’oltralpe. Un crescente gran numero di quegli immigrati si andò integrando formalmente nel corpo sociale. Tuttavia, non si può dire che quel gran numero di nuovi venuti e di loro discendenti abbia mai formato un popolo con la sua identità, un corpo omogeneo con unità di essere e di sentire, capace di operare e di difendersi. Innumerevoli schiavi mutarono il loro stato sociale, divennero liberti e liberi e, nel tempo, furono parte integrante della società. Nonostante tuttavia questa loro integrazione che fu solo formale, restarono un corpo estraneo. Certo, in alcune aree colmarono in parte il vuoto demografico esistente e sopperirono alla necessità di braccia, ma sostituirono solo fisicamente la popolazione mancante.

Nei quattro secoli durante l’impero, milioni di schiavi e di altri stranieri della più diversa provenienza continuarono a operare nelle aziende agricole e a servire nelle città e nei palazzi dei patrizi e degli arricchiti. Questi milioni di esseri umani, con mentalità, modi di essere, tradizioni e credo diversi da quelli degli autoctoni si trovarono insieme e stettero insieme, loro e i loro discendenti. Nessun segno ci mostra altro che questa loro necessaria coesistenza e la loro formale integrazione nella società. Se però si esamina quel che avvenne in quei secoli e dopo, si può dire che, nel loro stare insieme, quegli ospiti più o meno integrati solo formalmente non acquisirono mai comuni sentimenti di appartenenza e un sentito attaccamento alla comunità e allo stato.. La sostanziale mancanza di partecipazione, di unità e di coesione rendeva innumerevoli individui, che pur stavano nella stessa città, nella stessa azienda e sotto lo stesso tetto, estranei gli uni gli altri e indifferenti alle sorti delle istituzioni e della nazione. La mancanza d’identità, di senso civico e di unità, che distingue gli abitanti di Roma della fine dell’impero da quelli dei primi secoli della repubblica, ha origine remote: è in gran parte da cercare appunto in quella mancanza di coesione e di effettiva partecipazione e nell’incipiente disgregazione già evidente oltre mezzo millennio prima, dall’inizio del secondo secolo avanti Cristo. È da cercare nell’estraneità di milioni di esseri umani che restò sempre sostanzialmente immutata. Certo tanti stranieri erano stati utili l’un l’altro, si erano giovati del loro mutuo soccorso, ma tutti si erano intesi in una sola cosa: nel difendersi dal padrone e dallo stato, nel detestarli e possibilmente nel combatterli. Molti di loro si erano integrati formalmente nel corpo sociale e avevano lavorato con impegno ed erano stati solerti produttori. Per diverse generazioni i loro discendenti avevano certo continuato a trovarsi insieme e a convivere negli stessi luoghi. Tuttavia non si può dire che si fossero mai intesi completamente. Non si può dire che fossero mai giunti ad avere comuni sentimenti di appartenenza alla stessa nazione e a condividere supremi valori ideali, cioè ad acquisire i requisiti che fanno cittadini gli abitanti. Nel quinto secolo dopo Cristo, l’impero romano offriva il triste e desolante spettacolo del disfacimento generale conseguente a una lunga éra di decadenza. Gli abitanti di Roma, in parte notevole cittadini romani a tutti gli effetti, erano piuttosto discendenti dei milioni di schiavi e di liberti. Erano discendenti degli immigrati e dei loro eredi che da cinque secoli, cioè da prima della fine della repubblica, pullulavano nella capitale e nei latifondi. Nella capitale e in altre città italiche erano da tempo svaniti anche gli ultimi residui dell’antica libertà e della dignità romana. Le calamità e la generale promiscuità di genti di razze e di provenienze diverse avevano poco a poco diluito l’orgoglioso sentimento della libertà e della gloria. Non sopravviveva nulla del tempo del valore degli antichi romani, quando città e province erano soggette alle leggi e alle armi della repubblica. Il paese diveniva preda di molti poteri particolari e di infiniti conflitti tribali e affondava nel marasma. Con la società che da tempo era andata sempre più rovinando, si erano afflosciate le legioni e le istituzioni, che erano state la sua difesa e la sua guida. L’incapacità di difendere la propria sopravvivenza non si può spiegare solo con la corruzione e con i vizi diffusi in una popolazione oziosa. Non si può spiegare quindi con l’esaurimento delle energie fisiche del popolo e della stirpe romana, latina e italica. Non si può spiegarla perché quelle energie fisiche erano state sostituite per lungo tempo da energie e forze provenienti da fuori. Si può invece sostenere che quella incapacità si debba riguardare come conseguenza della ormai congenita disunione, dello strano amalgama e della mancanza di coesione di quelle sopraggiunte energie. Fu quella disunione la principale causa del disfacimento generale e dello sfacelo. Non erano certo ora cresciute le forze e la potenza dei barbari rispetto ai secoli precedenti. Al contrario, erano cambiati i romani, o meglio coloro che li avevano sostituiti, che del passato conservavano solo il nome. Sotto l’impero le istituzioni ebbero una valida difesa nelle legioni e sopravvissero. Allora la decadenza e la disgregazione possono essere spiegate anche e soprattutto con l’incapacità della popolazione senza identità e coesione. Che questa eterogeneità possa avere avuto un così grande effetto, si può desumere anche dalle conseguenze che ebbe sull’esito di avvenimenti di meno vasta portata. A invadere e occupare il paese non furono popoli interi, come avvenne in altre province dell’impero (la Gallia, la Britannia, l’Iberia), ma un’infinità di singoli individui di razze e di provenienze più varie, senza unità di popolo. Furono milioni di individui che affluirono nel tempo, si moltiplicarono e non riuscirono mai a trovare effettiva e sostanziale coesione. E in questa differenza è l’origine della profonda diversità del carattere degli italiani da quello di altri popoli europei, anche a distanza di tanti secoli.

L’immigrazione aveva dunque introdotto nel paese un’infinità crescente di individui che nel tempo divennero formalmente cittadini delle medesime città degli autoctoni e abitanti delle medesime contrade. Comunicarono per mezzo della stessa lingua. Acquisirono le medesime abitudini e condussero il medesimo modo di vivere. Non ebbero però un comune sentire, non si prefissero un medesimo fine e non assursero mai alla dignità di popolo. Il loro numero si sovrappose piuttosto a quello degli indigeni che, in quelle regioni italiche, andò sempre più assottigliandosi. Le nuove generazioni non acquisirono mai quella invisibile molla interiore che spinge gli uomini alla collaborazione protesa a un fine comune che non sia solo quello di reagire all’oppressione o di badare solo al proprio particolare interesse. La loro sostanziale incomprensione si era tramandata e aveva impedito che uomini viventi gomito a gomito si intendessero a pieno. Si era andato così formando il carattere di una popolazione poco sensibile alle esigenze della comunità composta di individui poco rispettosi dei diritti e delle spettanze del prossimo, di solito poco disciplinati e piuttosto ossequenti alla forza. Non è peregrino affermare che i caratteri che si erano andati formando nell’antichità, dal tempo della repubblica di Roma antica, sfidarono i secoli. Ancora nel 1860, a tanta distanza di tempo, quando si giunse all’unità politica del paese, si constatò che l’Italia era fatta, ma che gli italiani erano ancora da fare. Che questa loro mancanza di identità e di coesione non fosse la conseguenza del carattere e della composizione della società di tanti secoli prima? Nel paese si era andata formando una popolazione eterogenea che, a distanza di secoli, nessuna unità politica, nessun regime e nessuna moderna costituzione riuscirono ad amalgamare sostanzialmente e a rendere capace di unità di intenti e meno litigiosa. Cerchiamo di vedere meglio come ciò sia avvenuto, a costo di ripeterci. Nell’antichità, vecchi e nuovi venuti andarono sempre più formando la massima parte della popolazione non solo nella città di Roma. Erano europei, asiatici, africani, provenienti dai luoghi più diversi e lontani. Nonostante la loro diversità, si trovavano a lavorare e a vivere nella stessa città o nella stessa azienda o nella stessa villa signorile. Si può dire che si sono integrati, almeno formalmente. Vivevano e lavoravano insieme, parlavano la stessa lingua e conoscevano le leggi romane o, almeno, quelle che punivano le loro trasgressioni. I figli di molti di loro frequentavano le scuole insieme con i figli dei romani superstiti. Ma non si può dire fino a che punto i nuovi venuti o i loro figli o i loro nipoti, cioè gli immigrati di prima, di seconda, di terza generazione o di generazioni successive, fossero andati oltre la conoscenza della lingua e delle leggi romane e oltre l’esigenza di lavorare insieme per sopravvivere o per arricchirsi. Non si può dire se si fossero integrati sostanzialmente oltre che formalmente; se cioè oltre a parlare e a obbedire allo stesso modo e a lavorare insieme, avessero acquisito la medesima identità, avvertissero lo stesso vincolo che li unisse, lo stesso legame a un punto comune di riferimento, alla patria, alla tradizione, a un comune ideale e alla società in cui si trovavano. Risultò presto una crescente promiscuità di individui e la formazione di una società composta di un’umanità eterogenea, di difficile coesione, sostanzialmente conflittuale e radicalmente diversa dall’umanità precedente.

di Francesco Caracciolo
già prof. ordinario nell’Università di Messina
www.francescocaracciolo.it
www. culturaliniziative.it
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