Mutate condizioni sociali, costituzione, convenzioni
di Francesco Caracciolo

Nel parlamento italiano numerosi interventi di onorevoli del partito democratico (PD) si susseguirono il 22 luglio 2019. Più che discorsi documentati, essi furono violente arringhe di buonisti, umanitaristi e progressisti contro il decreto sicurezza bis emanato dal governo. Tutti i loquaci onorevoli che si sono cimentati nell’impresa contestarono il decreto, definendolo inutile, dannoso, antiumanitario, antidemocratico, assolutista e, anzi, dittatoriale. Con una requisitoria più tribunizia che parlamentare, tutti ripeterono le medesime noiose e trite argomentazioni e i medesimi concetti e lanciarono le medesime accuse.

Ho ascoltato quei loro discorsi e ho constatato che tutti contengono i medesimi prosaici e superficiali concetti e argomenti demolitori e nessuna valida proposta correttiva. In essi, i loro autori ripeterono quanto cercherò di sintetizzare. E cioè. Il decreto bis crea solo paura e la sua trasformazione in odio degli italiani verso gli stranieri, gente povera e bisognosa di aiuto. È un decreto antidemocratico, antiumanitario e dittatoriale. È contrario ai dettami della Costituzione italiana e delle Convenzioni internazionali che stabiliscono il dovere e impongono l’obbligo a chiunque, individui e Stati, capitani e marinai, di accogliere profughi, soccorrere naufraghi e salvare vite umane. Ma il decreto disattende le prescrizioni soprattutto umanitarie di Costituzioni e Convenzioni imponendo divieti e chiusure. Oltre a trasgredire leggi nazionali e accordi internazionali, calpesta diritti umani e obblighi civili. Dunque, esso contrasta con la realtà perché viola leggi e convenzioni e viene meno all’obbligo morale e civile di soccorrere e salvare vite umane. Inoltre, il decreto e i suoi autori, specialmente il ministro dell’Interno, mentre offendono il diritto e la morale, non si occupano delle effettive esigenze del Paese, come l’integrazione dei nuovi venuti, il loro sfruttamento, il ricorso a un efficace intervento dell’Unione Europea, eccetera.

In questi loro discorsi, tutti uguali, gli onorevoli contestano le violazioni e le trasgressioni perpetrate dal decreto e la difettosa politica del governo. Essi omettono però di tenere conto degli effetti che la politica buonista e lassista del governo ha prodotto negli ultimi decenni nel Paese già sovrappopolato e indebitato. Gli onorevoli critici del decreto omettono di tener conto della realtà, di spiegare cioè quali sono le condizioni in cui versa l’Italia. Un Paese di oltre sessanta milioni di abitanti, con un angusto territorio, con un’economia pressoché stagnante, con un alto tasso di disoccupazione (più o meno fittizia e patologica) e di emigrazione, con progredienti disfunzioni, carenze e corruzione, e con endemica conflittualità. Gli onorevoli omettono di spiegare quale sarà la realtà del Paese se il decreto non avrà applicazione ed efficacia e l’afflusso di immigrati e la loro invasione continueranno a crescere.

Gli onorevoli non parlano di tutto ciò. E io mi domando: le Leggi e le Convenzioni a cui si rifanno gli onorevoli buonisti riflettono la realtà? Quelle Leggi e quelle Convenzioni non furono concepite, scritte e contratte oltre mezzo secolo fa, quando la realtà nazionale e internazionale era radicalmente diversa e, anzi, opposta a quella odierna? Non sono perciò Leggi e Convenzioni obsolete?

Al contrario di ciò che sostengono tanti onorevoli, non è la realtà mutata radicalmente che deve adeguarsi alle Leggi e alle Convenzioni. Ma sono esse, da tempo obsolete, che devono essere adeguate alla mutata realtà. Se tanti buonisti andassero oltre la superficie e riuscissero a cogliere la necessità di adeguare Leggi e Convenzioni alla realtà e non viceversa, forse si renderebbero pure conto di quanto siano inutili, pettegoli, polemici e angusti i loro discorsi. Oggi, ci sono nel mondo sette miliardi e mezzo di abitanti.  Milioni di essi si spostano emigrando dai loro Paesi e centinaia di milioni si preparano a emigrare. I Paesi della loro destinazione devono difendersi dalla loro invasione se non vogliono subire il conseguente caos e il sovrappopolamento, rinunziare alla propria civiltà e ai propri costumi, e soccombere.

Questa è l’odierna realtà di cui bisogna tenere conto e queste sono le crescenti emergenze, di cui occorre capire l’importanza e la gravità. Ma di esse i buonisti non cercano nemmeno di informarsi. Eppure qualche contributo alla loro conoscenza è stato dato da anni. Di esso, qui di seguito, riportiamo qualche parte (i capitoli 20 e 23 di La folle corsa. Da Schengen a Dublino: Europa e Italia, di Francesco Caracciolo, pubblicato nel 2015). Vi è esposto quanto si persiste a ignorare e si insiste a presentare in modo capovolto.

Cap. 20. In ossequio al diritto d’asilo e all’obbligo d’accoglienza e solidarietà sanciti da convenzioni e regolamenti internazionali ed europei e da carte costituzionali dei singoli Stati, l’Europa si caricò di immigrati. La Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo (Onu) del 1948, la Convenzione di Ginevra del 1951, il Protocollo di New York del 1967, le Convenzioni, gli Accordi e i Regolamenti dell’Unione Europea, come Maastricht del 1992, Amsterdam del 1998, Dublino 1990, 2003 e 2013, e le Costituzioni dei singoli Stati, come quella italiana del 1948, resero sacri e inviolabili i diritti fondamentali dell’uomo e regolamentarono i diritti specifici dei deboli, bisognosi di aiuto specialmente se profughi e perseguitati in cerca di rifugio. Considerarono meritevole di protezione e assistenza non solo persone appartenenti a determinati paesi e gruppi nazionali, come era avvenuto nei decenni precedenti della prima metà del novecento, ma chiunque, ogni singolo individuo che avesse «il fondato timore di essere perseguitato» e di fuggire da una identificabile situazione di fatto.

La protezione che assicurarono tante leggi e strumenti giuridici soddisfece un’esigenza umanitaria e fu di ausilio a milioni di esseri umani. Chiunque nel mondo ebbe il giustificato timore «di essere perseguitato per la sua razza, la sua religione, la sua cittadinanza, la sua appartenenza a un determinato gruppo sociale o le sue opinioni politiche», sapeva di dovere essere accolto e protetto in Europa e nei Paesi che condividevano quelle leggi e quegli strumenti. E si può capire che ad avere tale timore, specialmente in situazioni di sconvolgimenti e di guerre, nel mondo erano innumerevoli individui. Milioni di essi si prefissero come meta l’Europa. In parte la raggiunsero insieme con molti altri milioni di individui che non erano spinti dalla persecuzione o dalla guerra, ma dalla povertà o dalla frenesia o dal desiderio di mutare cielo. E anche costoro che erano spinti dalla povertà o dal desiderio a cercare di migliorare le proprie condizioni di vita, trovarono accoglienza.

Si stimava che, profughi e non, regolari e clandestini, gli stranieri giunti in Europa da ogni parte del mondo fossero diverse decine di milioni. Oltre tre decine di milioni solo quelli regolarizzati, secondo calcoli dell’Eurostat fatti nel 2014. Ma non si poteva dire con precisione, non si sapeva essendo sconosciuto il numero degli irregolari. Altri migranti, forse diversi altri milioni, erano attratti dall’Europa ed erano in procinto di partire dai loro paesi per raggiungerla. Gli Stati dell’Unione europea, e più di tutti l’Italia a causa dell’impreparazione e dell’insufficienza delle sue strutture, erano in crescente difficoltà, sovraccarichi di stranieri e con milioni di propri cittadini disoccupati, e lo erano da anni. Alcuni di essi, cioè gli Stati di più antica immigrazione, cercavano da tempo di scansare altro sovraccarico lasciandolo gravare sugli Stati, come l’Italia, di più recente immigrazione, più esposti ad altri accessi e anch’essi divenuti oberati da anni. Tutti cercavano di alleviare i nocivi effetti di quel sovraccarico che si manifestavano nell’innegabile sconvolgimento, nell’insicurezza e nel prevedibile attentato alla propria identità e alla propria esistenza.

In queste condizioni precarie e di incertezza del futuro gli Stati europei avrebbero dovuto da tempo avere chiuso ogni accesso a stranieri. Ma essi, nel secondo decennio del duemila, continuavano ad accoglierli pur essendo prevedibile che l’aumento del loro numero (esponenziale secondo accreditate statistiche nei decenni a venire) avrebbe messo a repentaglio non solo la sicurezza pubblica, ma anche la sopravvivenza degli Stati ospitanti.

Certo una previsione del genere, se qualcuno l’avesse fatta, sarebbe stata da molti definita catastrofica e non sarebbe stata neppure presa in considerazione.

Le istituzioni e gran parte dell’opinione pubblica non si erano azzardate e non si azzardavano neppure a farne cenno. Se lo avessero fatto, avrebbero contraddetto le leggi fondamentali, le convenzioni e i regolamenti che prescrivevano il rispetto dei diritti umani e l’obbligo incondizionato di dare asilo a rifugiati e di accogliere migranti di ogni genere bisognosi di aiuto. E quelle leggi e quei trattati erano ritenuti sacri e inviolabili e nessuno si azzardava a proporne un riesame per scoprire se in tanti anni fossero divenuti in parte obsoleti. Se cioè quanto prescrivevano fosse ancora, in parte, confacente con la mutata realtà oggettiva dei popoli, degli stati e del mondo.

Certo il diritto d’asilo era ed era da considerare sacro e indiscutibile. Aveva radici antiche non solo in Occidente. Aveva assicurato ospitalità in Stati e istituzioni religiose sin da epoche remote a gruppi e a singoli individui in fuga da guerre, persecuzioni e ingiustizie, e in cerca di rifugio. In epoca moderna, i diritti dell’uomo e del cittadino furono sanciti dalla Dichiarazione nata nel 1789 nel corso della Rivoluzione francese e i diritti umani furono riconosciuti nel 1948 dalla Dichiarazione universale dell’Onu. Il diritto d’asilo da assicurare a profughi e perseguitati fu riaffermato dalla Convenzione di Ginevra nel 1951 e dal Protocollo di New York nel 1967. Seguirono poi regolamenti e accordi nell’ambito dell’Unione europea che dal 1985, da Schengen a Dublino, regolarizzarono l’accoglienza e l’assistenza degli immigrati.

In tanti strumenti giuridici internazionali ed europei furono fissati diritti e regole in base alle obiettive esigenze sociali dell’epoca.

Nell’antichità il diritto d’asilo non era stato estraneo in paesi come l’Egitto, Israele, la Grecia e Roma. Era stato confacente alle condizioni sociali allora esistenti in quei paesi. Era andato bene nella Roma antica che nei primi secoli della sua esistenza aveva avuto bisogno di popolarsi accogliendo rifugiati. Era andato bene negli Stati del Nord e del Sud America che avevano avuto bisogno di braccia da impiegare nella coltivazione di estese terre incolte e nelle attività economiche in espansione. Era andato bene in ogni epoca e in tutti i paesi in cui le istituzioni avevano mirato a proteggere singoli e minoranze dagli arbìtri e dalle persecuzioni del potente.

Non si può dire però che il diritto d’asilo avesse avuto lo stesso ruolo e sortito gli stessi effetti in paesi con spazi angusti, con scarse risorse e con eccessivo numero di abitanti.

Gli Stati europei erano sovrappopolati e in crisi nei primi decenni del duemila e non potevano accogliere e ospitare stranieri come avevano fatto in altre epoche altri Stati bisognosi di braccia che accrescessero le risorse esistenti. Non potevano farlo se non a scapito della propria sicurezza e della propria identità e sopravvivenza. E non dovevano farlo, come non l’avevano più fatto Stati come quelli americani, che avevano chiuso gli accessi quando non avevano avuto più bisogno di altre braccia.

Come ogni altro Stato osservante dei diritti umani, gli Stati europei avevano diritto di difendere la sicurezza dei propri cittadini e la propria identità. Pur continuando a osservare i diritti umani dovevano pertanto proteggersi chiudendo o limitando gli accessi di stranieri. E dovevano farlo come avevano fatto altri Stati liberali e democratici. Gli Stati Uniti d’America avevano chiuso e limitato gli accessi degli stranieri quando avevano cominciato ad avvertire che l’immigrazione non era più un contributo al proprio progresso ma, divenuta eccessiva, era un ostacolo e un peso insopportabile.

Nel passato il pianeta Terra era relativamente poco popolato, coloro che cercavano asilo erano pochi, i paesi ai quali erano diretti e i luoghi pii potevano accogliere quei pochi e ospitarli. Anche in epoca recente, tra le due guerre mondiali, coloro che scampavano da guerre e da persecuzioni di regimi autoritari come quelli fascista e nazista, erano poche migliaia. Quei pochi che erano, trovavano facilmente rifugio in paesi liberali e democratici, come il Regno Unito, la Francia, gli Stati Uniti d’America, senza causare in essi sconvolgimento e minare la sicurezza e la sopravvivenza. Ma dopo quegli anni della metà del novecento, quei pochi migranti crebbero sempre più di numero, divennero molti, moltissimi. L’esponenziale aumento della popolazione, il progresso tecnologico e dei mezzi di comunicazione, l’accessibilità dei mezzi di trasporto generarono allora dappertutto nel mondo profondi mutamenti. Si diffusero le conoscenze e divenne frenetico il desiderio di mutare il proprio stato. Molti milioni di esseri umani si spostarono dalle loro regioni, afflitte non solo dalla povertà ma anche da guerre, da governi illiberali e da regimi dittatoriali, verso paesi benestanti, l’Europa e gli Stati Uniti. I paesi benestanti li accolsero, indotti non solo dall’obbligo di rispettare i diritti umani intanto sanciti da convenzioni e costituzioni ma, alcuni, anche dalla necessità di sostenere la propria crescita economica. Nei decenni che seguirono tra novecento e duemila, i Paesi accoglienti divennero pertanto sovraccarichi di immigrati. E in essi, in aggiunta all’obbligo di accogliere e ospitare, sorse la necessità di salvaguardare la sicurezza dei cittadini e l’identità e la sopravvivenza degli Stati accoglienti minacciate dallo sconvolgimento più o meno palese prodotto dall’eccessivo e crescente numero di stranieri. Era una necessità obiettiva e vitale che contrastava con l’obbligo di rispettare il diritto d’asilo. E quella necessità, nata dalle mutate condizioni sociali, continuava ad essere sacrificata a quell’obbligo imposto da convenzioni e costituzioni varate in tempi non lontani in cui però le condizioni sociali erano state diverse.

A cavallo tra Novecento e Duemila le condizioni sociali erano molto diverse da quelle esistenti all’indomani della seconda guerra mondiale. A quelle condizioni sociali di metà novecento avevano attinto la convenzione dell’Onu e alcune costituzioni nazionali. Ma nei decenni seguenti il notevole aumento numerico della popolazione, le migrazioni di massa, il mutamento del modo di vivere in vaste aree del pianeta, sconvolsero quelle condizioni. Poteva riuscire appropriato adeguare le norme vigenti contenute in quelle convenzioni e in quelle costituzioni alle esigenze e ai bisogni mutati dell’uomo e della società. Ma nell’Unione Europea non si fece nulla per adeguarle, a differenza di ciò che avvenne in molti stati del mondo, dalla Russia all’Australia, al Medio ed Estremo Oriente, a diversi stati americani e africani, dove nacquero intanto e crebbero nuove aspirazioni nazionali, nuove appartenenze con cui si cercò di risuscitare vecchie identità, delle quali alcune sepolte da secoli.

Mentre dunque, in vaste aree piuttosto arretrate, crescevano l’irrequietezza, la frenesia, la sfrenata tendenza a mutare il proprio stato emigrando e, nel mondo, miglioravano le condizioni di vita e diminuivano i poveri (secondo stime fatte dalla Banca mondiale nel 2010), nell’Unione europea si badava dal 2007 «a garantire il rispetto dei diritti umani a ciascun individuo che si trova[sse] nella giurisdizione [degli Stati membri]», in base al diritto europeo e internazionale. E si facevano rientrare «in questa categoria gli immigrati irregolari» (European Union Agengy For Fundamental Rights).

Nel primo decennio del Duemila diversi Stati dell’Unione Europea continuarono ad accogliere e ad ospitare migranti come avevano fatto nei decenni precedenti quando le condizioni obiettive erano state profondamente diverse. I loro governi continuarono, o almeno dichiararono di volere continuare, a dare asilo a migranti anche quando andarono constatando che non erano più in condizione di farlo. Per essere coerenti con gli impegni che avevano presi, trascurarono di tenere conto del danno che procuravano ai propri paesi con l’eccessiva accoglienza e generosità. Quella loro coerenza appare pertanto inspiegabile.

Non si può credere infatti che i padri delle convenzioni internazionali ed europee e delle costituzioni nazionali (dal 1948 al 1998) avessero in mente di riferirsi all’accoglienza e ai diritti umani da dovere garantire al crescente numero di fuggiaschi da tutti i focolai di guerra e da tutte le aree depresse del mondo. Nella prima metà del novecento i fuorusciti e i fuggiaschi erano stati poche migliaia di unità e a quel numero si riferirono implicitamente i legislatori dalla fine della seconda guerra mondiale. Certo si era pure verificato che dalla seconda metà dell’ottocento alla seconda metà del novecento milioni di persone avevano lasciato i loro paesi poveri, ma loro meta erano stati paesi ricchi con vaste terre incolte, con grandi giacimenti ed enormi spazi e con economie in crescita bisognose di manodopera. Se si escludono quei milioni di persone che da regioni sovrappopolate e povere dell’Europa erano emigrate in regioni del mondo ricche di spazi e di risorse, in Europa poche decine di migliaia di perseguitati erano fuggiti da Stati con regimi totalitari e si erano rifugiati in altri. E quelle decine di migliaia di perseguitati e le loro traversie orientarono poi gli autori delle norme sull’accoglienza e sui diritti umani sancite a partire dal 1948.

Era allora, a metà del Novecento, impensabile che quelle poche decine di migliaia di fuggiaschi potessero divenire decine di milioni in qualche decennio. E pertanto si può supporre che se il legislatore avesse allora previsto un tale enorme aumento e i suoi effetti, sarebbe stato molto cauto nel trattare l’accoglienza e l’ospitalità. E a renderlo cauto sarebbero state le conseguenze che l’enorme afflusso di migranti avrebbe avuto specialmente in paesi sovrappopolati e con angusti territori. Ma allora il legislatore non poteva immaginare che milioni di persone sarebbero fuggite da numerosi paesi in subbuglio per ricoverarsi in altri paesi. Non poteva prevedere lo sconvolgimento che il loro spostamento in massa avrebbe prodotto nei paesi europei, benestanti ma sovrappopolati e con capienza assai limitata.

Ma quel che non si poteva prevedere allora si poteva intravedere con l’inoltrarsi del Duemila. Il latente conflitto che qua e là esplodeva da anni nelle città e nelle contrade di alcuni paesi europei, poteva fare immaginare la profonda trasformazione sociale già iniziata. L’afflusso illimitato di genti di provenienza, razza, colore, religione diversi, poteva solo alimentare e accrescere l’incipiente conflitto, che nessuna integrazione più o meno riuscita avrebbe potuto mai attenuare. E nel tempo, un tale afflusso, che si verificava per la fedele applicazione di norme e di princìpi umanitari in un clima introdotto dalla globalizzazione, poteva solo avere effetti distruttivi.

Nei Paesi europei, sovrappopolati e stretti, e non solo in essi, l’eterogeneo gran numero di nuovi venuti turbava sempre più la convivenza, stravolgeva l’identità, occultava le tradizioni e nel tempo avrebbe frenato e bloccato il progresso. Non era assurdo temere che in Paesi con tradizioni e regimi liberali e democratici sarebbe cresciuto un endemico conflitto non dissimile da quello che imperversava da tempo in molti Stati, dall’Europa all’Asia, all’Africa, in cui si fronteggiavano nel caos fazioni, bande e confessioni.

A metà del novecento il legislatore non poteva prevedere tutto questo. Ma quando si andarono scoprendo gli effetti che il diritto d’asilo produceva in una realtà profondamente diversa, bisognava trarre le conseguenze cambiando le norme che lo prescrivevano. Era chiaro che bisognava interrompere il processo in atto se non si voleva giungere agli estremi limiti. L’alternativa che avevano gli Stati europei era una sola: difendersi o continuare a subire. Per evitare di giungere al punto di non ritorno, bisognava sospendere l’efficacia o interrompere l’osservanza di convenzioni, accordi e costituzioni e, in particolare, delle norme in essi contenute concernenti il diritto d’asilo. E quindi ogni Stato, da solo o con altri dell’Unione più esposti, si doveva difendere efficacemente finché non passasse la bufera, cioè finché milioni di persone non rinunciassero a spostarsi senza freni.

Nel secondo decennio del duemila il mondo era da tempo sovrappopolato, con oltre sette miliardi di abitanti. Alcune aree, specie in Africa e in Asia, pullulavano di persone che vivevano sotto la soglia della povertà e di esse milioni cercavano asilo altrove. I paesi loro meta non avevano più spazi e risorse disponibili e non erano in condizione di accogliere il loro continuo afflusso. Il numero e spesso la condotta dei nuovi venuti generavano sconvolgimento, conflitto e insicurezza, e facevano temere per la sopravvivenza dell’identità e delle tradizioni degli stati ospitanti. Destavano un timore che si manifestava assai poco, sopraffatto com’era dall’obbligo di accogliere e ospitare sancito in convenzioni e costituzioni.

Negli Stati europei e specialmente in Italia si avvertivano due opposte esigenze. Con l’obbligo di continuare a offrire accoglienza e ospitalità in obbedienza a convenzioni e costituzioni si imponeva il contrario obbligo di difendere sicurezza e identità fermando gli afflussi. Ma era impossibile garantire sicurezza e identità chiudendo gli accessi ed eliminando lo sconvolgimento se persisteva l’obbligo del diritto d’asilo prescritto da convenzioni e costituzioni. Bisognava dunque trasgredire regole e impegni sottoscritti in convenzioni e costituzioni per potere difendere la sicurezza e la sopravvivenza di identità e tradizioni.

Per potere fare una trasgressione del genere bisognava prima stabilire se l’obbligo di ossequiare i diritti umani di accoglienza e ospitalità potesse sussistere in contrasto con l’obbligo di proteggere e difendere la sicurezza e l’identità. Bisognava stabilire se si dovesse preferire la propria all’altrui sopravvivenza; se si dovesse continuare ad accogliere ed assistere altri anche a costo di annientare se stessi.

Questo dilemma allora non fu posto e il duplice obbligo continuò a imporsi.

Certo i diritti umani, l’accoglienza e l’ospitalità erano sacrosanti e dovevano essere riconosciuti, ma non a scapito della sicurezza e della sopravvivenza di chi li riconosceva. Si dovevano osservare finché non contrastavano con la sicurezza e la sopravvivenza di chi li osservava. L’accoglienza e l’asilo potevano essere riconosciuti finché il numero dei richiedenti non oltrepassasse un certo limite e finché ci fossero spazio e risorse disponibili nei paesi accoglienti e ospitanti. Un paese sovrappopolato, in crisi, con risorse scarse e con eccedente e disordinata offerta di lavoro, non poteva continuare a ospitare altri abitanti rischiando di piombare nel caos e nella depressione per ottemperare al dovere di riconoscere il diritto d’asilo. Doveva essere chiaro che un popolo o un individuo non poteva annientare se stesso per obbedire al dovere di soccorrere altri.

Queste considerazioni non furono allora fatte e, nell’indifferenza generale, l’Europa continuò ad accogliere quanti fuggivano dalla guerra, dalla persecuzione o dalla povertà.

L’Italia dove arrivavano tanti migranti e altri Stati europei che quei migranti raggiungevano in parte erano carichi di stranieri, e lo erano da tempo. E tutti quegli Stati limitavano il più possibile l’accoglienza per scongiurare altri accessi, benché nessuno di loro rivelasse quel suo occulto rifiuto e, anzi, al contrario, tutti dichiarassero in ogni occasione di essere disponibili all’accoglienza e all’ospitalità in ossequio ai princìpi universali sanciti da costituzioni e convenzioni.

Il 20 settembre 2014 il ministro tedesco dell’Interno, De Maizière, ammetteva che occorresse «contingentare», cioè distribuire i migranti tra tutti gli Stati dell’Unione, ma precisava che non sarebbero stati i tedeschi ad accogliere altri migranti perché la Germania era uno dei Paesi che ne ospitavano di più.

In realtà la Germania, come l’Olanda, il Lussemburgo, la Svezia, la Spagna, la Francia, il Regno Unito, erano carichi di immigrati come e più dell’Italia. Ma essi, a differenza dell’Italia, si erano sovraccaricati nel tempo, spinti da obblighi coloniali e dalla necessità di manodopera, e prima di lei, che bruciò le tappe e in quattro decenni li emulò caoticamente senza averne alcuna necessità.

E nonostante il sovraccarico gli Stati europei continuarono allora a non dar peso a ciò che avveniva. L’Italia, che era lo Stato più esposto alla migrazione, si limitò a indicare il danno che riceveva a causa della sua posizione di avamposto nel Mediterraneo. Non era una novità. L’Italia aveva sempre fatto ricorso al lamento e alle invocazioni di aiuto sin dalla fine del novecento, quando si era cominciato a constatare che stava per essere invasa da stranieri, come lo erano stati prima di lei altri Paesi europei. I suoi lamenti e le sue invocazioni si erano accentuati nei momenti critici, di emergenza, in cui gli afflussi di migranti erano aumentati a dismisura. Nel 2014 e nel 2015 lamentava ancora di essere lasciata sola a soccorrere i migranti in alto mare, a portarli a destinazione e a ospitarli e non si stancava di continuare a chiedere inutilmente aiuto all’Europa.

Cap. 23. Il continuo flusso di migranti giunti in Italia durante l’inverno e la primavera 2015 faceva temere il loro aumento nei prossimi mesi estivi. La polizia italiana aveva intanto conferma di ciò che già si sapeva: che sulle coste libiche centinaia di migliaia di persone, provenienti da diversi Stati dell’Africa e dalla Siria e in parte già in potere dei trafficanti, attendevano di partire per l’Italia.

Era una conferma preoccupante. La Libia continuava a partorire la massima parte del traffico di migranti. In quel Paese regnava il caos e aumentavano i conflitti tra fazioni. L’Onu e l’Unione Europea insistevano nel progettare e intraprendere azioni diplomatiche per mettere d’accordo le diverse forze contrastanti e fare così cessare quei conflitti. Si continuava a sperare che la cessazione del caos avrebbe reso possibile esercitare il controllo dei flussi che da quel Paese giungevano in Italia. E si continuava a progettare di potere istituire in Libia un’agenzia dell’Onu che selezionasse i migranti e individuasse i profughi, cioè coloro che avevano diritto di asilo in Italia e in Europa.

Ammettendo che si riuscisse a pacificare la Libia e a istituire là un’agenzia di controllo dei migranti – c’era da chiedersi –, quanti sarebbero i profughi, cioè coloro che avrebbero diritto d’asilo da far giungere in Italia? E quanti sarebbero coloro che, non ammessi a passare dalla Libia, troverebbero altre vie marittime o terrestri per giungere in Italia e in Europa? Non partivano dalla Siria o dal Libano o dalla Turchia o dalla Grecia imbarcazioni cariche di migranti per l’Italia?

Domande del genere allora non furono poste.

Eppure erano molti milioni le persone che allora e per decenni ancora vorrebbero lasciare i paesi poveri in cui vivevano per raggiungere, se potevano, i paesi ricchi, come risultava dal documentato esame fatto da Paul Collier. E milioni erano i profughi che dai loro paesi sconvolti da guerre e conflitti andavano in altri paesi africani e asiatici.

Meta di milioni di costoro era l’Europa. E l’Europa doveva continuare ad accoglierli in ossequio alle convenzioni e agli accordi che contemplavano il diritto d’asilo. Un diritto riservato specialmente ai profughi, a coloro che erano reduci da disastri e da persecuzioni e provenivano da paesi in guerra o con regimi totalitari.

Ma quanti erano e quanti sarebbero stati nei prossimi anni e nei prossimi decenni i profughi o, meglio, coloro che sarebbero risultati tali? Come si faceva a distinguere i profughi e i perseguitati dagli altri migranti? Gli uni e gli altri provenivano da paesi in subbuglio o con regimi totalitari, da paesi poveri, anche se alquanto progrediti e non poveri come erano stati prima. Ma di essi quanti erano i disastrati e i perseguitati, cioè i profughi aventi diritto d’asilo? Non era facile stabilirlo. Molti migranti avevano l’identità che dichiaravano. Respingerli era una scelta difficile quanto quella di accoglierli. In realtà coloro che risultavano profughi erano e sarebbero stati innumerevoli.

Queste constatazioni allora non furono fatte e si osservò quanto avveniva con molto ottimismo.

Le decisioni prese negli incontri tra i rappresentanti dell’Unione Europea e dell’Italia avevano partorito l’intervento di Triton dal novembre 2014. Ma che effetto poteva avere il pattugliamento del Mediterraneo deciso dall’Unione Europea? L’operazione Triton poteva riuscire a normalizzare uno stato di cose tanto caotico? Poteva tenere sotto controllo continui e crescenti flussi di migranti considerando che l’acuirsi della crisi in diversi paesi dell’Africa e dell’Asia Minore spingeva anche molti profughi a cercare di raggiungere l’Italia e l’Europa? Il controllo esercitato, anche se efficace, poneva un freno all’afflusso di tanti profughi? E se si riuscisse a individuare i migranti non profughi e si giungesse a cooperare con i loro paesi d’origine, a ottenere da essi il via libera ai rimpatri dei clandestini e a istituire nel nord Africa uffici di smistamento e di selezione delle domande d’asilo, si potrebbe evitare che il crescente flusso di migranti continuasse a riversarsi in Italia e in Europa?

Nei primi giorni di marzo 2015 l’inviato delle Nazioni Unite, Bernardino León, prevedeva – come abbiamo visto – che il persistente caos in Libia avrebbe reso inevitabile nell’immediato l’enorme flusso di migranti verso l’Italia e suggeriva l’unico provvedimento che si poteva prendere per contrastarlo.

«Ma – egli spiegava – c’è una misura che l’Unione europea può prendere subito: presidiare in forze il mare davanti alla Libia. L’Italia non può farlo da sola, ha bisogno di aiuto. Sono certo che il Consiglio di sicurezza dell’Onu appoggerebbe questa iniziativa».

L’inviato dell’Onu suggeriva dunque di «presidiare in forze il mare davanti alla Libia» con un blocco navale, di prendere cioè l’unica misura possibile per fermare il fiume di migranti pronti a partire. Avvertiva che il blocco sarebbe potuto riuscire efficace se fosse fatto in forze; che l’Italia da sola non poteva farcela; che era necessario l’intervento dell’Europa.

Questi suoi avvertimenti, che avrebbero dovuto destare allarme, caddero nel nulla, non ebbero alcun seguito. Anzi c’era da prevedere che il blocco navale, se fosse stato possibile effettuarlo, sarebbe stato vietato dallo stesso Onu di cui León era l’inviato.

E non sarebbe stata questa una previsione infondata.

Il governo italiano aveva dovuto interrompere nel 2012 i respingimenti di barconi provenienti dall’Africa perché era stato accusato appunto dall’Onu e dall’Ue di avere violato i diritti umani. I due organismi avevano fatto rilevare che i respingimenti non consentivano di fare una selezione dei migranti e di ammettere quelli di loro che ne avessero diritto, cioè i profughi provenienti da paesi in guerra e i perseguitati politici che avevano diritto all’asilo.

Come era avvenuto nel 2012, da ogni parte si faceva rilevare nel 2015 che la misura suggerita dall’inviato dell’Onu non era possibile attuarla almeno per il momento. Non era possibile respingere i migranti, come non era stato possibile in passato, perché i respingimenti non consentivano di individuare i profughi che avevano diritto all’asilo e, perciò, disattendevano i diritti umani e contrastavano con le convenzioni internazionali ed europee.

Queste ragioni prevalsero come sempre. L’invocazione di un intervento in forze dell’Europa cadde anch’essa nel nulla e fu solo un auspicio, come era sempre stato in passato.

Eppure l’ormai annosa esperienza avrebbe dovuto suggerire che non c’era alternativa a quella soluzione se si voleva por fine al protrarsi all’infinito della critica situazione da tempo insostenibile. Non c’era più tempo per fare rinvii, avere dubbi, restare in attesa degli eventi e sacrificare così le esigenze che nascevano dalla realtà a quelle che imponevano accordi e convenzioni.

Non si poteva più pensare a un’operazione navale come Mare Nostrum o Triton, come a un mezzo risolutivo. Non era più possibile soccorrere, selezionare e accompagnare i migranti a destinazione. Erano molto cresciuti di numero specialmente dai primi mesi del 2014 ai primi mesi del 2015, quando il loro flusso era raddoppiato e i paesi europei erano colmi. Con le operazioni Mare Nostrum e Triton, profughi e migranti vari giungevano tutti in Italia e in massima parte vi restavano. In parte chiedevano di avere asilo in altri stati dell’Unione e solo una modesta percentuale dei richiedenti otteneva accoglienza in quegli stati.

Questo stato di cose non offriva scelte. Per evitare il prevedibile peggioramento della situazione e in attesa di potere fare altro, l’Italia poteva solo impedire ogni accesso e presidiare il mare. Poteva inviare le sue navi al largo dei porti della Libia, come suggeriva l’inviato delle Nazioni Unite, e nei punti del Mediterraneo in cui i suoi aerei individuassero imbarcazioni sospette per intercettare e interrompere il traffico.

Certo, una siffatta azione costerebbe molto impegno e molte risorse. Sarebbe un blocco e darebbe avvio a dichiarazioni di guerra, essendo impossibile fermare e ispezionare navi senza provocare le loro proteste e la reazione dei paesi a cui appartenevano.

Alla prova dei fatti, questi inevitabili ostacoli potevano essere superati.

Le risorse si potevano reperire mobilitando il proprio interesse. La massima parte del flusso di migranti giungeva su barconi e su gommoni scoperti, che non avevano ufficiale nazionalità e si potevano indurre, con un po’ di perizia, a tornare indietro. Le navi fermate e ispezionate che non avevano migranti a bordo, potevano provocare proteste e reazioni. Ma in tal caso si poteva far valere lo stato di necessità e d’urgenza che aveva indotto a quell’azione.

I prevedibili ostacoli non dovevano impedire che l’Italia ricorresse ai respingimenti, come aveva fatto in passato quando aveva dovuto desistere per il richiamo dell’Onu e dell’Unione europea che avevano indicato l’obbligo di rispettare i diritti umani e per l’accesa riprovazione di partiti politici e forze di opposizione scandalizzati per tanta violazione.

Nel 2015 l’Italia che aveva sul suo territorio milioni di immigrati, assai più di quanti ne aveva avuti alcuni anni prima, doveva difendersi a tutti i costi. Se l’Onu, l’Ue, ecclesiastici e politici specialmente di sinistra che erano negli organi istituzionali pretendessero l’osservanza degli impegni e deplorassero la mancanza di buonismo e di umanitarismo, l’Italia doveva continuare a difendersi.

Era necessario che respingesse e si difendesse per potere evitare lo sconvolgimento e sopravvivere anche contro l’opposizione di tanti italiani.

La presidente della Camera del deputati, Boldrini, brandiva la sua lunga esperienza di rappresentante dell’Onu a sostegno dell’accoglienza dei migranti. A suo avviso respingerli significava condannarli a morte certa. E dunque bisognava accoglierli. Quanti fossero non contava proprio.

E mentre in Italia si levavano lamenti da ogni parte per l’eccessiva presenza di stranieri, il 21 aprile 2015 la stessa presidente spiegava ai non accoglienti che i respingimenti in mare non si potevano fare perché rendevano impossibile individuare i profughi e dare loro asilo e pertanto trasgredivano la convenzione di Ginevra.

Un opinionista scriveva sul Corriere della Sera il 22 aprile 2015 che «chi farfuglia di respingimenti in mare non sa di cosa parla». Non lo sa – spiegava – perché bisognava individuare coloro che avevano diritto di essere accolti. E dunque l’esame dei migranti e l’ammissione di rifugiati e di coloro che avevano diritto alla protezione sussidiaria e all’asilo dovevano avvenire dopo lo sbarco in terraferma. I respingimenti pertanto rendevano impossibile l’esame e l’accoglienza ed erano perciò in contrasto con la Costituzione italiana che garantiva il diritto d’asilo «allo straniero cui nel proprio Paese ven[isse] impedito l’esercizio delle libertà». L’Italia si poteva dunque difendere solo punendo severamente i fuorilegge, scafisti e trafficanti.

Altri, come un deputato del Centro democratico e portavoce della Comunità di Sant’Egidio, negavano che i respingimenti potessero disincentivare nuove partenze e sostenevano che il blocco navale sarebbe «totalmente irrealistico».

Un ammiraglio spiegava che il blocco navale non era fattibile perché le navi non potevano respingere barconi colmi di migranti senza produrre vittime e disastri.

Questi discorsi di politici e di esperti erano ammanniti mentre l’afflusso di migranti continuava ininterrotto e dall’inizio a metà 2015 erano sbarcati e restati in Italia decine di migliaia di altri stranieri.

La situazione era intanto divenuta insopportabile. Bisogna fermare il continuo afflusso per difendersi. Era una necessità. Era evidente che se non si riuscisse a fermarlo, molti migranti continuerebbero a morire in mare nonostante Triton e molti altri renderebbero invivibile il paese che li accoglieva.

Certo convenzioni e regolamenti andavano rispettati. Ogni paese doveva dare asilo e assicurare un rifugio a perseguitati e fuggiaschi da guerre e sconvolgimenti. Ma doveva darlo anche se i richiedenti rifugio erano innumerevoli e il loro afflusso minacciava la sicurezza e la sopravvivenza del paese ospitante?

Questa domanda avrebbe meritato una risposta, ma allora non fece parte degli argomenti in discussione.

Un popolo, la sua identità, la sua tradizione e la sua esistenza, che rischiavano di essere stravolti da un’invasione senza limiti, non si potevano salvaguardare solo punendo severamente qualche migliaio di fuorilegge, scafisti e trafficanti.

Convenzioni e regolamenti erano in funzione delle esigenze di individui e di popoli e dovevano essere osservati finché non minavano la sicurezza e l’esistenza di una parte per garantire i diritti di un’altra. L’Italia e l’Europa, che li avevano partoriti, erano giunti agli estremi limiti di sopportazione. Se volevano sopravvivere non potevano continuare ad accogliere altri stranieri in ossequio a quelle convenzioni e a quei regolamenti varati in altri tempi in cui non c’erano milioni di migranti vaganti per il mondo. La costituzione italiana e le convenzioni erano state concepite quando nel mondo non c’erano ancora centinaia di milioni di migranti, molti dei quali con meta Italia ed Europa, paesi che nel 2015 non avevano più spazio e risorse per accoglierli. I tempi erano mutati e le esigenze erano cambiate. E questi cambiamenti erano in atto da alcuni decenni e da tempo si poteva prevedere la situazione insostenibile cui si era giunti. Nel 2008 previsioni del genere furono fatte in un libro autopubblicato, Come muore una civiltà e come sta morendo la nostra, che non ebbe fortuna per l’indifferenza e l’ostilità delle cosiddette case editrici.

Di fronte all’invasione che si annunciava crescente e faceva prevedere il futuro si chiusero gli occhi. Dall’ultimo decennio del novecento furono stipulati trattati e regolamenti che, con quelli fatti alcuni decenni prima, resero intangibile quanto stava avvenendo e immutabile il processo in atto. L’invasione continuò e in ossequio a quelle convenzioni e a quei regolamenti giunse agli estremi limiti.

Non è spiegabile perché i governanti, invece di fare leggi e leggine e di firmare convenzioni e regolamenti, non provvidero a sciogliere i vincoli che mantenevano inalterato il processo in corso. Perché non provvidero per tempo a rivedere, o almeno a tentare di rivedere, quelle convenzioni e quei regolamenti. E perché ancora nell’estate 2015 continuavano a non provvedere a proporre e a esigere la loro revisione.

Eppure bisognava rivedere convenzioni, costituzioni e regolamenti, specie là dove fissavano l’incondizionato diritto d’asilo. Se non si potevano rivedere subito, bisognava sospenderne l’efficacia o trasgredirle finché l’Italia, con o senza l’apporto dell’Europa, non avesse provveduto a respingere i flussi di gente il cui numero era divenuto insopportabile.